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Emmaus: nel fallimento e nella fuga, un nuovo inizio

di fra Vincenzo Ippolito
Gli eventi della storia vanno letti con la luce di Dio, senza il suo sguardo le nostre saranno letture parziali, come quella di Cleopa e del suo compagno. Abbiamo bisogno che il Signore ci doni la chiave per comprendere quelli che noi definiamo fallimenti, ma che in realtà, con gli occhi di Dio, sono i passaggi naturali di ogni autentico cammino di crescita e di maturità.

 Luca (24,13-35)

Dopo l’esperienza del sepolcro vuoto fatta con Maria di Magdala, Pietro e il Discepolo amato nel giorno di Pasqua (cf. Gv 20,1-10), dopo che, la scorsa domenica, abbiamo accolto con i discepoli l’alito del Risorto, lo Spirito della misericordia e della riconciliazione, che vince in noi le resistenze e l’incredulità, come in Tommaso (cf. Gv 20,19-31), la liturgia continua a donarci i racconti delle apparizioni del Risorto, sprone per passare anche noi con Cristo dalla morte alla vita nuova del suo Spirito. Diversamente dalle scorse domeniche e da quelle che seguiranno fino a Pentecoste, il brano evangelico odierno non è vergato dalla penna di Giovanni, ma da Luca, il caro medico, discepolo di Paolo. È lui a descriverci il viaggio da Gerusalemme ad Emmaus di Cefa e del suo compagno, presentandoci lo sconosciuto Viandante che si unisce a loro per condurli, attraverso un itinerario interiore, a rileggere la storia con gli occhi di Dio. Quella dei discepoli di Emmaus è la narrazione evangelica dove il Risorto guarisce gli occhi dei discepoli incapaci di vedere, la mente di comprendere, il cuore di bruciare. È l’esperienza che facciamo anche noi: ascoltiamo la Parola del Signore e sediamo a mensa con Lui, riconoscendolo nello spezzare quel Pane che è Lui stesso, cibo per il nostro cammino, senso vero del nostro essere discepoli suoi, tra le strade del mondo, testimoni di resurrezione e di vita nuova per i fratelli.

 Sulla strada della fuga
Ci troviamo ancora nel giorno di Pasqua. Il brano evangelico inizia proprio con una indicazione temporale “in quello stesso giorno” (Lc 24,13) che è poi “il primo giorno della settimana” come lo stesso Evangelista aveva appuntato, introducendo il racconto delle donne che, andate al sepolcro, videro “due uomini presentarsi a loro in abiti sfolgoranti” (Lc 24,4). Di ritorno hanno raccontato agli apostoli la visione avuta e l’annuncio accolto (cf. Lc 24,1-12), ma, appunta Luca, “quelle parole parvero a loro come un vagheggiamento e non credevano ad esse. Pietro tuttavia si alzò, corse al sepolcro e, chinatosi, vide soltanto i teli. E tornò indietro, pieno di stupore per l’accaduto” (Lc 24,11-12).
Sulla base delle indicazioni evangeliche, è facile immaginare i sentimenti che albergano nel cuore dei discepoli, meraviglia e sgomento, paura e stupore, timore e tremore invadono gli animi un tempo sedotti dalla parola e dallo sguardo del Nazareno. È questo il tempo dello smarrimento e della dispersione nel quale ciascuno imbocca la sua strada, segue il suo cuore, cerca di vivere l’angoscia o anche la gioia – è il caso delle donne che hanno accolto l’annuncio della resurrezione – sapendo di non essere compresi. Il cuore non ha più una dimora stabile, perché il Maestro non c’è più, il suo corpo non è stato trovato, ma anche per chi lo crede risorto, rimane un mistero la sua nuova presenza. Anche per noi è difficile vivere il tempo della transizione, attraversare la notte dello smarrimento, accogliere il dramma dell’incomprensione che ci chiude in noi stessi e ci fa divenire amara la solitudine che sperimentiamo. Le parole degli altri – come nel caso di Tommaso – non ridonano senso alla vita, i raggi di sole riflessi nello specchio dell’altrui esistenza non riscaldano e così si precipita vertiginosamente nelle profondità dell’accidia. Si tratta di momenti molto delicati nei quali facilmente il Nemico si insinua perché la confusione porti alla totale lontananza da Dio. Il dolore non accolto e la sofferenza mal sopportata vengono anestetizzate dalla compagnia di altri naufraghi che si afferrano a noi per sopravvivere, mentre crediamo di essere noi a ricevere sostegno e forza da loro. Anche noi siamo come i due discepoli di Emmaus quando non sappiamo rimanere nel cuore stesso della comunità divisa tra chi ha visto il Signore risorto e chi non si sente raggiunto dalla sua misericordia. Anche noi siamo come i due discepoli di Emmaus quando l’indeterminazione nei rapporti ci chiede di avere pazienza, perché solo con il tempo i vini diversi delle molte parole mescolatesi in un solo tino si decantano per dividere il frutto buono della vite dalla feccia che ne  muta l’identità e la preziosità del gusto. La fuga – Luca, in realtà, non lo dice espressamente, ma il fatto che manchi il termine non significa che ne sia assente la realtà, tutt’altro! – lo scappare a gambe levate, è il segno dell’incapacità a rimanere sulla breccia per combattere, la prova provata che il timore consuma il cuore, l’incapacità o la cattiva volontà di superarsi rappresenta una vera pietra di inciampo.
La prima cosa che si fa quando non si crede è scappare. Un bambino scappa quando non vuol credere alla madre e, con il broncio, fugge alla ricerca di chi gli lo accolga incondizionatamente. Un uomo fugge dalla sua donna quando o non crede o non è creduto e mal sopporta la presenza dell’altro, quasi dicendo “Che ci sto a fare qui se non vengo accolto?”. Scappa l’amico dall’amico quando l’incredulità inclina il rapporto ed il silenzio non parla se non per accusare ed acuire il dolore. È quanto capita ai discepoli. Scappando da Gerusalemme non si riconoscono più discepoli di Gesù, rompono la relazione vitale che li legava al Maestro e vanno via perché la vita di sequela per loro non ha più senso. È proprio il senso delle cose, il significato profondo del reale che manca come il lievito nella massa. Volgono le spalle al passato e gridano a se stessi: “Io con quel Gesù non ci voglio avere nulla a che fare, morto o vivo che sia è stato un fallimento. Mi sono illuso una volta, ma io non continuerò a credere ad un morto e alla voce di chi lo dice vivo”. Per Cleopa ed il suo compagno si tratta di una crisi di identità simile a quella del Figlio minore nella parabola del Padre misericordioso: “Padre dammi la parte di patrimonio che mi spetta!” (Lc 15,12) come a dire: “Da oggi, io sarò padre di me stesso, mi gestirò la vita come desidero e credo, autonomamente prenderò le mie scelte e farò parte delle mie cose a chi voglio”. In quei momenti non è importante dove si è diretti, non si hanno idee chiare e mete determinate.
La fuga è una tentazione permanete per ogni uomo. Fuga fu quella di Giacobbe che, spinto da Rebecca, evitò di incappare nell’ira del fratello Esaù (cf. Gen 27, 41-45); “Mosè ebbe paura – appunta l’autore dell’Esodo – e fuggì via dal faraone” (Es 2,14.15); alla fuga si diede anche Elia, impaurito dalle minacce della regina Gezabele (cf. 1Re 19,1-3). E noi? Quali sono le nostre paure? Le situazioni dalle quali fuggiamo, le relazioni che volutamente evitiamo, i chiarimenti che con determinazione rimandiamo? Chi è nostro alleato nell’angoscia? Nel Getsemani invochiamo il Padre, come Gesù, perché si compia il suo volere oppure, in preda al dolore, brighiamo per procurarci la salvezza, senza scomodare Dio e la cura che Egli riserva anche ad ogni capello del nostro capo? Chi è nostro alleato nelle avversità, il nostro Cleopa pronto a condividere la fuga dagli impegni promessi, le responsabilità assunte, la chiamata che il Signore un giorno ci ha rivolto e che noi, allora con il sorriso, abbiamo accolto? Quando e quanto è duro stare sulla breccia della relazione di coppia, rimanere genitori senza intraprendere scorciatoie dove si cercano alleanze con i figli che hanno bisogno del timone di educatori esperti non di chi si finga, per accondiscendenza, loro amico?  
Sulla strada del fallimento e della nostalgia si incontra Gesù
Oltre alla fuga, un’altra categoria ben indica la situazione dei due di Emmaus e questa è il fallimento. Cleopa ed il suo compagno sentono di aver sbagliato tutto, che i tre anni condivisi con Gesù siano stati tempo perso, che a nulla sia servito ascoltare la sua parola e lasciarsi sedurre dai segni potenti che Egli operava. La morte del Maestro è come se li avesse svegliati da un sogno troppo bello per essere vero. Fallire è come morire o forse – ed è questo il caso dei discepoli – a fallire è l’idea che essi si sono fatti di Gesù, anche se Egli li aveva più volte ammoniti sul significato della sua ultima Pasqua, procedendo risoluto verso Gerusalemme. Ma anche i fallimenti fanno parte della vita, le speranze deluse – i discepoli lo diranno “noi speravamo che fosse lui …” (Lc 24,21) – credere in una persona che si rivela diametralmente opposta a come la immaginavamo noi.
Ogni rapporto umano cresce proprio con le crisi e i fallimenti accolti. Si matura quando la realtà di se stessi e dell’altro/a non la si nasconde, ma la si guarda in faccia per amarla. Solo l’amore rende capaci di accogliere le incomprensioni, di ricucire i rapporti, di guarire dai fallimenti, di dissolvere le illusioni perché si riparta dal reale, senza pretese. I due discepoli vorrebbero lasciarsi tutto alle spalle – vorremmo farlo tante volte anche noi, come loro, seguendo la strada tracciata da Giacobbe, Mosè, Elia … –  ma è così vivo in loro il ricordo di Gesù, le sue parole ancora risuonano incisive e forti che non possono non parlare di ciò che hanno vissuto con intensità. La loro vita è scandita da una grande contraddizione, da una parte scappano dalla persona di Gesù, dalla responsabilità in precedenza assunta di esserne discepoli e, dall’altra, con la mente, continuare a ritornare a Gerusalemme, a discutere animosamente – “conversavano tra loro di tutto quello che era loro accaduto” (Lc 24,14) – a lasciarsi interpellare anche dalle parole considerate irrilevanti di coloro che testimoniano la vittoria della vita sulla morte. Così anche noi vogliamo e non vogliamo, scappiamo e non vorremmo, desideriamo crescere sul serio, ma in noi non riusciamo a trovare la forza, il coraggio per vincere gli ostacoli che non solo gli altri, ma che spesso noi stessi costruiamo e consideriamo insormontabili. In questo cammino poi, non siamo mai soli, non soltanto perché cerchiamo compagni di viaggio che siano nella stessa nostra situazione – “Può forse un cieco guidare un altro cieco?” (Lc 6,39) –  ma anche perché il nostro cuore è abitato da tante voci che “discorrevano e discutevano insieme” (Lc 24,15).
Può sembrare strano, ma proprio quando si crede che Dio sia assente dalla nostra vita, Egli è realmente presente, in un modo per noi misterioso. Egli si rivela, ma sono i nostri occhi ad essere velati e a non riconoscerlo. I due discepoli non si sono ancora ben allontanati da Gerusalemme che già hanno dimenticato la voce di colui che lì chiamò per nome, il volto che, risplendente di luce sul Tabor, donava luce e vita senza fine. Gesù si intrufola nella loro strada, facendo finta di essere uno straniero. Inizia ad attaccare bottone con una domanda banale – “Che cosa sono questi discorsi che state facendo lungo il cammino?”, Lc 24,17 – che serve solo a cercare un varco nella loro discussione. I discepoli si attendevano un Messia grande e potente, un liberatore politico, è quanto fanno intendere essi stessi (cf. Lc 24,21). Invece, Gesù prende la forma del servo, del piccolo, dell’uomo qualunque, anzi del servo, del povero. A Betlemme, nella greppia c’è un bambino come tanti altri nati in quello stesso momento. Maria e Giuseppe, con i pochi pastori, sanno di essere dinanzi al mistero più grande della storia umana, al Dio che diventa uomo, che si fa piccolo con i piccoli, servo con i servi, umile persino dinanzi alla voce alta e prepotente dei signori di questo mondo. Dio non rispetta le nostre categorie, ma sceglie le strade che meglio rivelano il suo essere amore che sempre si dona in pienezza.
I due di Emmaus soffrono la cecità della fede che è sintomo della sclerocardia del cuore. Gli occhi sono incapaci di riconoscere il Signore perché il cuore non sente più l’affetto della persona che un tempo amavano e dalla quale si sentivano amati. Riconoscere – è questo il verbo usato dall’Evangelista “Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo” Lc 24,16) – non è un semplice vedere l’altro e ricordare la sua voce e il suo volto come già noto, quanto piuttosto un entrare nel mistero della persona che è accanto, di fronte, vederla nella sua profondità di come è, non di come appare o io me la figuro. Con Gesù è ancora più complesso tale passaggio perché entrare in lui nel mistero della sua persona vuol dire riconoscerlo come Dio, Signore della nostra vita, collaboratore della nostra storia, vuol dire non fermarsi alla carne e al sangue, ma andare al di là della semplice apparenza. A Dio piace rivelarsi così, desidera lasciarci liberi di credere oppure di non credere. Entra nella nostra giornata spesso grigia e priva di senso e inizia ad interpellare misteriosamente, con modalità che Lui solo conosce, una persona, una frase letta di sfuggita, una voce che fiorisce inaspettata nel cuore. Egli non interrompe il nostro procedere nella direzione opposta a Lui. Proprio qui si manifesta il suo affetto. L’amore, quello vero, lascia liberi, ma sfrutta ogni minima opportunità pur di dirsi e darsi, non attende lo straordinario, ma cerca le cose semplici, quelle che nessuno vede, ma che solo l’amato riconosce ed apprezza.
La logica di Dio è questa, il suo paradosso è farsi trovare lì dove non lo si attende, essere proprio dove egli non viene cercato, sperata la sua presenza, ma fermamente creduta la sua assenza. Chi si aspetterebbe Dio in una greppia? Il Salvatore del mondo su una barca tra pescatori a dormire? Il Messia promesso con i piedi tra le mani di una peccatrice che li bacia, li bagna con le sue lacrime per asciugarli con i suoi capelli? Te lo aspetteresti Dio legato alla colonna e flagellato, appeso ad una croce che attende, come un condannato qualunque, la morte più diffamante? Eppure Dio è lì.  A lui piace rivelarsi così. Piace risollevarti quando ti trovi nei peccati, correrti dietro quando stai fuggendo da Lui, guardarti ed amarti mentre tu sei distratto e non incontri il suo sguardo. A lui piace così perché l’amore è così, imprevedibile, semplice, non si lascia annunciare con la tromba e non attende lo spiegare dei tappeti per passare. L’amore è la cenerentola dei sentimenti, viene all’ultimo non perché sia meno importante, ma perché è più umile. Noi e Dio abbiamo logiche diverse, fino a quando combatteremo contro di Lui?
Lo sconosciuto viandante in ascolto del cuore umano
A Gesù piace interpellarci. La sua domanda – “Che cosa sono questi discorsi che state facendo lungo il cammino?” (Lc 24,17) – non è frutto di curiosità, ma del desiderio di ridonare loro l’identità perduta di discepoli e far rifiorire la gioia della sequela, credendo nella sua resurrezione. Gesù sa già chi siamo e cosa ci portiamo nel cuore, ma vuole egualmente che ci raccontiamo dinanzi a Lui e che, facendolo, raccontiamo la nostra storia a noi stessi, quasi diventando spettatori oggettivi, osservatori esterni della nostra esistenza sul palcoscenico che si costruisce e mette in scena con le nostre parole. Il Maestro chiede a Cleopa e al suo compagno di vuotare il sacco del proprio cuore, di renderlo partecipe del dolore che si portano dentro per i fallimenti e le illusioni accumulate nel cammino. E questo non dura un attimo, per alcuni può durare giorni, per altri mesi, per altri ancora anni. È il cammino di libertà che per Israele durò quarant’anni. Indipendentemente dal tempo che occorre, il Signore è lì in persona ad ascoltare, senza distarsi mentre noi gli raccontiamo di noi e di Lui.
Prima di trasmetterci la risposta dei discepoli, Luca scrive “Si fermarono con il volto triste” (Lc 24,17). Ci sono dei momenti nella vita in cui è necessario fermarsi per pensare su se stessi, riflettendo su quello che si sta facendo. Per i due discepoli il fermarsi è rendere partecipe lo sconosciuto Viandante del proprio dolore, è dire all’Altro non solo o non tanto con le parole, ma con i gesti quanto si porta nel cuore. È il volto ad essere triste perché lascia trasparire quanto una persona si porta dentro. Chi scappa non può essere che triste, i suoi piedi sono rivolti in avanti, ma il cuore rimpiange quello che si sta per lasciare. Quante volte anche noi siamo tristi ed i nostri volti lasciano trasparire i fallimenti che ci portiamo dentro? Non c’è trucco che regga alla tristezza che traspare dai nostri occhi. È bene non aver paura di dirsi e darsi all’altro così come si è. Perché aver paura della persona che si ama? È vero, non è sempre indolore comunicare quello che ci si porta nel cuore, ma come si può essere carne della carne dell’altro, ossa delle sue ossa se della persona amata non si conosce tutto e se lei di te non è desiderosa di apprendere anche le cose più semplici e insignificanti?
Gesù ascolta il racconto dei suoi, si ferma con loro, sintonizza i suoi passi, il suo cuore, i suoi pensieri con i passi, i cuori e i pensieri dei due apostoli smarriti. In realtà chi è veramente straniero ed estraneo a sé e al mondo non è Gesù, anche se non riconosciuto, quanto gli apostoli, così tristi e soli. Ai gesti seguono le parole che arricchiscono la scena. È bello notare come Gesù, posta la domanda, accoglie quanto i due dicono senza battere ciglio, le parole non vengono interrotte, anche se rappresentano interpretazioni sbagliate della realtà. Il Risorto ascolta con attenzione e accoglie con umiltà. È la grazia dell’ascolto che spesso manca nei nostri dialoghi, quella che evita di soprapporre alle parole dell’altro le proprie, alzando la voce, quando vogliamo imporre il nostro punto di vista. Con Gesù si assiste ad un vero dialogo. Egli si lascia trapassare dalla parola perfino di riprovo dei suoi – Lui e noi? – come sulla croce lasciò che il suo costato fosse trapassato dalla lancia che fece uscire dal suo cuore sangue ed acqua. Qui c’è tutta la pedagogia che Dio ha utilizzato da sempre, fin dalla creazione del mondo con l’uomo, la pedagogia dell’amore che si annulla perché l’altro sia se stesso, dell’amante che tace perché l’amato possa dire ed avere sempre l’ultima parola, non importa quale, sia pure quella dell’opposizione e del rifiuto.
 Guariti dal Risorto per vivere la comunione
 L’Evangelista giunge al riconoscimento del Signore da parte dei discepoli non prima che il Risorto, sotto mentite spoglie, apra le loro menti alla comprensione delle Scritture. Gli eventi della storia vanno letti con la luce di Dio, senza il suo sguardo le nostre saranno letture parziali, come quella di Cleopa e del suo compagno. Abbiamo bisogno che il Signore ci doni la chiave per comprendere quelli che noi definiamo fallimenti, ma che in realtà, con gli occhi di Dio, sono i passaggi naturali di ogni autentico cammino di crescita e di maturità. Il Risorto guarisce i discepoli dall’incredulità con la sua parola che è balsamo per le ferite del cuore inquieto. Solo dopo che la presenza del Signore, inconsapevolmente, li ha sanati, lo riconosceranno nello spezzare il pane. Quando poi Egli sparirà “dalla loro vista” (Lc 24,31), capiranno la trasformazione operata nei loro cuori e troveranno la forza per ritornare a Gerusalemme e testimoniare nella comunità-chiesa la sconvolgente novità del loro incontro con il Risorto.
Cristo-parola e Cristo-eucaristia sono la duplice modalità che il Padre dona anche a noi come ai due discepoli di Emmaus, per rendere i nostri occhi capaci di vederlo vivo e vero in mezzo a noi, per illuminare la mente nel comprendere il mistero della sua Pasqua, facendoci ardere il cuore con la sua Presenza che dona alle nostre tempeste la vera pace.


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