Pinocchio
È termine tecnico di manovra la parola "vocazione". I latini, fini cesellatori della parola, la annodano stretta al verbo "vocare" il cui significato è "chiamare, convocare, esortare, nominare". Verbi che somigliano molto ad una sveglia: interrompono il sonno, fanno scendere dal letto, rimettono in piedi. "Quando hai sentito di avere la vocazione?" mi chiede spesso conto la gente. Non ho mai incrociato una domanda più insulsa di questa. Avere-la-vocazione: una sorta di possedimento, quasi versione evangelica della proprietà-privata della società, il sospetto che anche sulle chiamate dall'Alto l'uomo possa decidere se accettarle oppure lasciarle senza risposta. Le pagine del Vangelo non ammettono margini di errore: non è un qualcosa che si possiede, la vocazione. È la vocazione che ci possiede. Chi dice "ho la vocazione" è sempre tentato, per una sorta di difetto professionale, a guardare indietro per trovare episodi che lo giustifichino: "Gesù mi ha chiamato quel pomeriggio, quella volta che non sono andato fuoristrada, il giorno in cui mi è andata bene l'operazione". Chi ammette d'essere posseduto da una vocazione, sa bene che le tracce della sua vocazione le dovrà andare a cercare davanti a sé: pare impossibile sapere cosa Dio voglia da noi guardando solo alle nostre spalle. È guardando avanti che la strada s'apre per noi.
Il motto della Giornata Mondiale delle Vocazioni di quest'anno è tutto qui: «Alzati, va' e... non temere!». Alzarsi è verbo di manovra, un'azione fastidiosa, il sospetto che la pacchia sia finita. Andare – declinato all'imperativo, la forma del comando – è un'indicazione di movimento: "Sbrigati, datti da fare, il mondo ti sta aspettando". "Non-temere" è augurio di partenza, condizione prima di arrivo: la paura, ad ogni stazione di partenza, è accovacciata alla porta. Quel non-temere è anticipo di compagnia: "Io sarò con te, ce la farai: stanne certo!" Il senso della chiamata è tutto qui: un preoccuparci che la nostra vita non sia una di quelle storie noiose che è difficile ascoltare, ma che possa essere la migliore delle storie possibili. C'è un'immagine d'insopportabile bellezza nel Vangelo di Giovanni: quando la leggo, mi ci leggo dentro. Parla di un incontro: quello tra il giovane Natanaele e Gesù. Natanaele, incuriosito dalle parole dell'amico Filippo, che gli accennava di Gesù, s'avvicina a Cristo. È ancora distante, quando Gesù, parlando a della gente, dice di lui: «Ecco un Israelita in cui non c'è falsità». Quel giovane è stupito, Gli rigira al volo lo stupore: «Come mi conosci?». Pensava di essere un estraneo, Gesù lo seduce con l'effetto-sorpresa: «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico» (Gv 1,47-48) Stare sotto il fico è starsene per i fatti propri, a menare avanti la danza dei mestieri di quaggiù: il massimo della sorpresa è sapere che, mentre noi siamo indaffarati, qualcuno ci ha già messo nel mirino del suo sguardo. Quando ci accorgeremo, sarà troppo tardi: per qualcuno, sarà addirittura impossibile andarsene via da quegli occhi.
La storia, anche quella cristiana, è piena zeppa di chiese cadute in rovina: là dentro, certe domeniche, degli uomini hanno nutrito la pretesa di ridurre Dio solamente al rituale di un pane-secco: Lui, nel frattempo, camminava su strade di periferia a cercare-postini da arruolare per i suoi scopi divini. Millenni dopo – con tutta una storia ad accreditargli fiducia – l'uomo ancora s'ostina a trattare la vocazione come fosse un qualcosa che si possiede: "Entro in seminario perché sento la vocazione di diventare prete". Anche Cristo, dal canto suo, è ostinato: a far capire che l'unica vera ragione per dirsi uomini-chiamati è sentirsi devastati da una voce che, più cerchi di ridurre al silenzio, più ti alza la voce: «Alzati, va' e... non temere!». Vocazione è rovesciare i verbi della grammatica quotidiana: «io non credo perché vedo ma perché sono stato visto» (E. De Luca). Appunto.

(da Il Mattino di Padova, 7 maggio 2017)

Commenti