E se Peter Pan non fosse l’eterno adolescente ma l’angelo della morte?

In Peter Pan le metafore sono ormai scoperte, sono scorticate: stiamo parlando della morte del bambino, della morte del bambino in ospedale. Peter Pan è perso da una mamma distratta e diviene il bambino che non cresce. Tutti i bambini cresceranno, tranne uno,
Peter.
There were odd stories about him;
As that when children died
he went part of the way with them,
So that they should not be frightened
Strane cose si dicevano su di lui. Si raccontava che quando i bambini morivano Peter li accompagnava nel primo tratto di strada perché non ne fossero terrorizzati.
Peter Pan è l’angelo della morte. Lui e i bambini perduti sono morti. Sono morti in ospedale:
«Forse non avete mai visto la pianta della mente di un uomo. I medici talvolta disegnano piante di altre parti del corpo, anche del vostro, e la vostra pianta personale può risultare interessante, per voi. Provare a dire loro di tracciare la pianta della mente di un bambino, che, non solo, è confusa, ma è in continuo movimento. Difficilmente ci riescono. Vi sono linee a zig-zag come quelle che segnano la vostra temperatura su una tabella clinica e con ogni verosimiglianza rappresentano le vie di un’isola. Infatti l’Isolachenoncè è, più o meno, un’isola con meravigliose macchie di colore, qua e là, e banche di corallo, e vascelli pirata al largo, e selvagge tane solitarie, e gnomi che per lo                                          più esercitano il mestiere di sarto».                                                                         (Peter Pan, Capitolo 1. Presentazione di Peter)
Ci sono nel libro frequenti allusioni a un mondo di malattia e ospedalizzazione. I tre bambini ospiti sono in pigiama o camicia da notte per tutta la narrazione: loro torneranno a casa. Peter e i bambini perduti no: loro in quelle corsie sono morti. Nel Medio Evo i bambini crepavano come mosche, ma a casa e in braccio a mamma. Poi, con l’industrializzazione, i bambini hanno iniziato ad andare in ospedale. E non sempre tornavano. Non c’era il telefono. La mamma andava la domenica a trovare il suo bambino e le consegnavano le scarpine e il vestitino perché lui era morto il giovedì. Solo. Impotente e solo.
Peter ha sogni atroci, incubi sconvolgenti, da cui solo Wendy lo consola come consolano le madri: ninnandolo.

Perché sbirciando dietro le metafore del libro, l’Isolachenonc’è ci appare come il sogno di un bambino malato

Quando Peter non è presente tutto l’ingranaggio si ferma, anche indiani e pirati smettono di guerreggiare: l’Isolachenonc’è è il sogno di un bambino malato. Il romanzo gronda sangue. È un sogno, certo, un gioco, però è il sogno cruento di un bambino malato che sposta il sangue che imbratta le siringhe che usano per lui sulle spade dei Bimbi perduti. Quando i pirati aggrediscono gli indiani è una carneficina. Un gioco, certo, ma le parole sangue e morte vengono ripetute ossessivamente. Peter è un bimbo piccolo. Non ha ancora cominciato a perdere i denti. Ha i denti da latte e li ha tutti. Una fila di perle. Più di una volta questa fila di perle viene nominata e l’idea di questi denti caduchi che non cadranno mai accentua l’impressione di qualcosa di profondamente tragico.
Il mondo di Alice, come l’Isolachenonc’è, è un condensato di sogni, giochi e fantasticherie infantili, quello di Peter più strutturato e logico, quello di Alice più ermetico e onirico. Sotto un’allegria di facciata celano l’orrore dei regni dei morti di epoca precristiana. Sono rappresentazioni multicolori dell’Ade. In realtà la tragedia di fondo di questi mondi senza futuro è che, in cambio di una manciata di giocattoli, di indiani amichevoli e pirati pasticcioni destinati alla sconfitta permanente, è stato tolto il crescere. I bimbi perduti raccolti da Peter Pan nell’Isolachenonc’è si riuniscono attorno a Wendi perché racconti una storia, in uno slancio di nostalgia atroce per la madre che «li ha persi».
Ho perso mio figlio: il mio bambino è morto. Tutti i bambini crescono, ma non il mio. Come Peter Pan, il mio bambino è confinato in un limbo che somiglia a un ciclopico parco giochi, altrettanto insulso e triste. Ossessivo, nelle due narrazioni, è il tempo. Il cipollone del Bianconiglio, sempre in ritardo e la sveglia nello stomaco del coccodrillo scandiscono un tempo senza futuro.
Il ticchettio dell’orologio è una della grandi scoperte dell’umanità. Non è solo lo strumento indispensabile alla totalità della tecnologia recente, ma è stato lo strumento necessario per misurare e pagare il tempo del lavoratore. In luoghi non abituati all’orologio, come le vecchie comunità agricole il tempo del lavoro non viene calcolato come valore.
Il ticchettio dell’orologio è quello che ci permette di prendere il treno. È quello che permette l’esistenza del treno. Se però il tempo di mio figlio è contato, se questo tempo non è destinato ad avere un domani, se qualcuno mi ha detto: ancora un mese, signora, forse tre, allora il ticchettio dell’orologio diventa altro.
Dipende da quanto risponde alla digitale.
Dipende da quanto gli farà bene il sanatorio.
Ancora un mese, forse due, forse cinque, dipende da quanto risponderà alla chemioterapia.
Allora il ticchettio dell’orologio diventa un’ossessione. Un incubo.

Ne Il Piccolo Principe ci perdiamo anche le metafore. Il Piccolo Principe non cade nella tana del Bianconiglio, non parte per l’Isolachenonc’è. Il Piccolo Principe, semplicemente, muore. Il Piccolo principe muore perché non sopportiamo la morte del figlio e da qualche parte dovevamo metterla. Nella narrazione fantastica.

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