Non possiamo dare a Dio il primo posto, senza prima capire che noi occupiamo il primo posto nel suo cuore

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Non possiamo dare a Dio il primo posto, senza prima capire che noi occupiamo il primo posto nel suo cuore

Se Dio occupa nella nostra vita un posto secondario è perché non abbiamo sperimentato fino in fondo la profondità del suo amore e se, procedendo nel cammino, lo abbiamo accantonato significa che non abbiamo nutrito una relazione sempre più bella con Lui, rispondendo all’amore di elezione che Egli ci ha donato.
di fra Vincenzo Ippolito

Dal Vangelo secondo Matteo 10,37-42
In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà. Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta come profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto come giusto, avrà la ricompensa del giusto. E chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».

Seguiamo, anche questa domenica, la narrazione del capitolo decimo del Vangelo secondo Matteo. Gesù ha inviato i suoi discepoli in missione (cf. Mt 10,1-4) ma, prima di farli partire, offre loro le indicazioni necessarie per vivere al meglio l’annuncio del regno (cf. Mt 10,5-42). Già la scorsa domenica abbiamo letto e meditato alcune delle ammonizioni che il Maestro rivolge ai suoi e anche oggi, attingendo dalla medesima sezione di detti di Gesù, la liturgia ci dona sei versetti che fanno comprendere ancor meglio come annunciare il Vangelo è la diretta conseguenza della scelta radicale di Cristo e della relazione preferenziale da vivere con Lui.
Una vita plasmata dalla parola
Il brano evangelico odierno (cf. Mt 10,37-42) si collega direttamente a quello della scorsa domenica (cf. Mt 10,26-33) – in realtà, si saltano pochi versetti, incentrati sull’autorivelazione di Cristo e sulla sua missione (cf. Mt 10,34-41) – e rappresenta un approfondimento ulteriore della chiamata apostolica, perché i discepoli, iniziando la missione, devono chiarire a se stessi la scelta fatta e rinsaldare, proprio nel momento in cui si stanno temporaneamente staccandosi da Gesù, il vincolo che li lega a Lui, come i tralci alla vite. È come se l’Evangelista volesse dire che un buon evangelizzatore deve riflettere nell’annuncio la relazione che vive con Cristo, come il rapporto filiale ed obbediente che il Figlio vive nei riguardi del Padre si riflette nell’annuncio gioioso del regno. Nella missione non basta ciò che si dice, neppure come lo si dice, ma quello che si vive, perché quello che passa e si imprime nel cuore dei fratelli è proprio come la Parola abbia inciso in maniera determinante nella propria vita. Il discepolo che parte per la missione è ricco non solo e non tanto della parola che il Signore ha donato alla sua mente e che sente di dover custodire nel cuore, ma della sua vita incisa, come le tavole di pietra del Decalogo, dal dito del Dio vivente che è il Cristo Signore. Gesù sa bene che nell’annuncio non è la voce a gridare – ecco perché nella preghiera consiglia di non sprecare parole, perché è inutile credere di essere ascoltati a forza di parole, cf. Mt 6,6-7 – perché è la vita a parlare di Dio e del suo regno, ciò che muove il cuore degli ascoltatori alla fede è la convinzione di chi annuncia, la fede che lo anima, lo zelo che lo spinge, la conversione permanente che egli vive per accorciare le distanze tra parola e vita. Gesù indica che il primato è e deve sempre essere della vita sulle parole, dell’esempio sulle ammonizioni, dell’amore sperimentato sulle imposizioni moraleggianti, della presenza e della condivisione sull’impostazione autoritaria e sull’atteggiamento autoreferenziale. Chi annuncia al pari di Paolo, sa di non essere padrone della fede dei fratelli, ma collaboratore della loro gioia (cf. 2Cor 1,24). Chi annuncia, è chiamato a donare con umiltà il Vangelo e a testimoniare che la parola trasmessa con le labbra ha trasformato il cuore e determinato un cambiamento totale nella vita.
Nella relazione educativa, come in ogni altro rapporto, la coerenza tra parole e vita risulta essenziale, perché come si può pretendere che sia incisivo un consiglio o anche un discorso se poi la vita è in dissonanza con quanto si propone all’altro? In questo Cristo non fa sconti perché la sua comunità non ha bisogno di mestieranti, di persone che annunciano la parola come una filastrocca, cantastorie che ricevono vanto da quanto annunciano, ma che poi nulla donano di se stessi alla parola che passa senza trasformarli. La parola del Vangelo sulle nostre labbra non perde la sua forza, perché la sua efficacia non dipende dalla nostra capacità umana di obbedirle, ma può oscurarne la portata, limitarne l’azione, chiuderne l’effetto. Gesù non vuole che la sua parola, diversamente dalla tela bianca di un artista, trovi un cuore già colmo di altro, una menta occupata in mille cose, una vita presa in preoccupazioni ed affanni di questo mondo. Chi annuncia la buona Novella deve averne sperimentato la portata, assaporato la fragranza, gustato la bellezza, interiorizzata l’incisività, provato l’amarezza perché è un veleno mortifero per il proprio egoismo. Dio parla attraverso chi vuole, ma egualmente vuole che chi parla di Lui e del suo regno sappia quello che dice e viva una relazione profonda di amicizia con Lui. È molto più facile lasciarsi trafiggere il cuore, come coloro che ascoltarono Pietro il giorno di Pentecoste (cf. At 2,37), quando a parlare è un testimone, ma, quando questo non accade – tutti viviamo momenti di difficoltà ed incoerenza, di fragilità e di debolezza – la parola fa la sua corsa e resta sempre seme di salvezza e di gioia, ma il salto da compiere è di fede, non lasciandosi determinare dall’atteggiamento di chi annuncia nel credere a quanto Dio dona.
Gesù, che punta sempre in alto, desidera che la bellezza della vita del suo inviato mostri la grazia della sua salvezza, che la radicalità della vita del missionario incida nel terreno dei cuori perché la parola vi cada come seme che mette radici. Cristo si serve di noi, nel mistero della sua onnipotenza, ma che tristezza vedere che la sua parola attraverso di noi raggiunge gli altri, determinando un cambiamento di vita, mentre non riesce a scalfire sul nostro cuore! Il Maestro vuole e chiede che il discepolo per primo viva la sua parola con totale abbandono ed amore. In tal modo, esiste una stretta relazione tra il cammino personale, sempre scandito da cadute e fallimenti, e il nostro essere annunciatori e testimoni per i fratelli della parola che salva. Una cosa è la gradualità del cammino di conversione, nel quale, tenendo ben fissa dinanzi la meta, si procede con impegno e determinazione, facendo i conti con le proprie lentezze e strutturali povertà, altra cosa è la volontà di non lasciarsi raggiungere dalla Parola di Cristo che ci è donata e che noi trasmettiamo agli altri. In tal modo, il Maestro chiede non di attendere uno stato di perfezione personale per annunciare il regno, ma di sentirsi sempre in cammino, così da condividere con coloro ai quali ci rivolgiamo sia la bellezza delle altezze che l’annuncio mostra, sia la fatica del rinnegamento di se stessi, per imboccare la strada della sequela.
Il primato di Dio
È forte la parola che Gesù rivolge ai suoi discepoli e, attraverso il Vangelo, a ciascuno di noi: “Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me” (v. 37). Il sangue si raggela nelle nostre vene sentendo parole che provocano la nostra mediocrità e cozzano contro il buonismo con il quale spesso viviamo e testimoniamo la nostra fede. Cristo non ammette compromessi – quante volte papa Francesco lo sta ripetendo! – la sua chiamata non permette sconti, la sua grazia non consente lentezze, la sua tenerezza non tollera doppiezza di intenzioni. La scelta di accogliere Lui deve essere radicale, priva di finzioni. La risposta alla sua chiamata sarà totalizzante, prendendo cuore, mente e forze nostre, soltanto se la volontà si farà condurre dalla potenza dell’amore di Dio. Inutile credere di poter essere radicali nella risposta a Dio con le sole nostre forze, perché Colui che chiama a ripresentare nella storia il suo stesso “” incondizionato e totale di amore e di dedizione al Padre, effonde su di noi la sua grazia di elezione che consuma il nostro egoismo e ci spinge a rispondere a Dio in totalità perché i fratelli contemplino nel dono che gli facciamo di noi stessi l’offerta di Cristo che si perpetua, per la grazia dello Spirito, nella nostra debolezza.
Se Dio occupa nella nostra vita un posto secondario è perché non abbiamo sperimentato fino in fondo la profondità del suo amore e se, procedendo nel cammino, lo abbiamo accantonato significa che non abbiamo nutrito una relazione sempre più bella con Lui, rispondendo all’amore di elezione che Egli ci ha donato. Il problema prima che di risposta, è di esperienza dell’amore con Dio. Non si può mettere il Signore al primo posto nella nostra vita, senza prima scoprire che noi occupiamo il primo posto nel suo cuore. Non ci ha forse Lui amati per primi (1Gv 4,19)? La scelta della radicalità nasce dall’esigenza di rispondere all’amore che Cristo ha riversato nei nostri cuori, un amore senza compromessi, né mezze misure. È vero, noi avvertiamo tutto il dolore di sentirci sradicare il nostro io dal petto, quando ascoltiamo le esigenze grandi della vocazione apostolica. In realtà, un cuore abitato dall’amore, sedotto dalla santa sua tenerezza, conquistato dalla divina compiacenza, affascinato dalla sua vita che si riversa in noi, non può che sentire in sé l’urgenza di eguagliare Gesù in questa volontaria abnegazione, liberando il cuore perché accolga ancor di più la potenza del suo affetto. Chi si sente amato e avverte di occupare il primo posto nel cuore dell’altro, non può non rispondere con eguale trasporto, a meno che non lo voglia. Anche qui la paura può giocare brutti scherzi, perché non è semplice imboccare la strada della totalità. Spesso si guarda più a ciò che si lascia e si perde di vista ciò si trova, che è immensamente più grande. Noi troviamo Dio e questo determina un cambiamento radicale nella nostra vita. L’amare Cristo di più, infatti, significa rileggere ogni relazione alla luce del rapporto preferenziale con Lui.
Questo capita – e deve capitare, pena la non costruzione dell’unità familiare – anche nel matrimonio. La relazione preferenziale tra gli sposi deve condurre a mutare i rapporti parentali con i familiari perché gli sposi, nella reciproca relazione, corroborata dalla grazia del sacramento nuziale, trovano la sorgente della loro vita e sotto la luce del mistero dell’unità che vivono devono relazionarsi con gli altri. Gli sposi sono chiamati a vivere tra loro il di più dell’amore, senza assecondare le pretese o i ricatti psicologici che genitori e parenti possono accampare, ma affermando con chiarezza come la vita matrimoniale determini una scala valoriale strutturalmente mutata rispetto al passato. Non è semplice far passare gli altri al secondo posto, come non è semplice passare al secondo posto, ma questo è il segno che vogliamo il nostro vero bene secondo Dio e perseguiamo il meglio anche per gli altri. Si tratta anche qui di un cammino graduale, nel quale, con determinazione, si chiariscono spazi e competenze e si offrono possibilità nuove non per amore di meno, ma per amore nel giusto modo. Il problema molto spesso, non sta nell’amare, ma nel come si ama e nella pretesa di essere amati secondo il proprio modo di amare.


Vivere il primato di Dio è il grande impegno che deve regnare in ogni famiglia e comunità, sia essa parrocchiale e religiosa, come anche nei gruppi e movimenti ecclesiali. Al centro e all’apice di ogni parola ed attività c’è sempre e solo Cristo, non come lo pensiamo noi e pretendiamo che venga seguito dagli altri – spesso imponiamo un nostro modo di seguire Cristo e così, pur senza accorgercene, cerchiamo di divenire padroni della fede dei fratelli – perché è il Vangelo, accolto, letto e meditato nella Chiesa che deve spingerci a capire che vivere il primato di Dio comporta sempre il prendere la croce e seguire Lui solo. Si tratta di passaggi conseguenziali: amare Dio al di sopra di tutto (cf. Dt 6,5) e nulla anteporre all’amore nostro per Lui – che è pur sempre un amore di risposta al suo nei nostri riguardi – in secondo luogo prendere la propria croce, assumendo le contraddizioni della propria storia, le contrarietà della vita, le situazioni avverse che scandiscono il quotidiano per seguirlo, seguire Lui, sempre e solo Lui, dove Lui solo può e vuole condurci, perché nella sua volontà sta il nostro vero bene. Si può anche iniziare il cammino e poi perdere la strada maestra, ovvero scegliere Dio e prendere la croce, ma seguendo se stessi. È questa una delle vie alternative, nelle quali crediamo di seguire Gesù e invece perseguiamo una salvezza a misura nostra. Seguire Lui significa, invece, mettere in gioco la propria vita, perderla, come fece Cristo che “non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso […] umiliò se stesso” (Fil 2,6-7). Gesù ci chiede di vivere la dinamica del perderci e del perdere nelle relazioni, senza accampare diritti. Il modello della vita del discepolo è e resta sempre il Maestro, in ogni situazione dell’esistenza. Bisogna sempre e solo guardare a Lui che ci dona la vita, la vita in abbondanza.
Cosa significa per una famiglia cristiana vivere la logica del perdersi, se non pensare al personale tornaconto, non cercare il proprio interesse? Perdersi nell’abbraccio e nel cuore della persona amata vuol dire vivere l’oblio di se stessi, la dimenticanza del proprio egoismo, nel desiderio di costruire la casa comune, l’unità della propria carne con l’altro/a. Non ha senso tenere stretta la propria vita e cercare di conservarla, senza la persona che Dio ci ha donato e ha reso nostra carne. L’unico modo per salvare la propria esistenza è perdersi nell’altro e per l’altro. Perché nascondere qualcosa a colui/colei che è propria carne e proprio osso? Perché fare di tutto per avere sempre la meglio, prevalere nella discussione, perseguire la ragione nel confronto/scontro? L’amore vero determina la volontà di perdere il primo posto per cederlo, l’ultima parola per accogliere, la vita perché l’altro/a viva dalla morte a noi stessi che, unica possibilità da attuare sempre, fa rinascere ogni rapporto. Per fare questo bisogna lasciare le redini della propria vita nelle mani di Dio, fidandosi della potenza del suo amore, della cura di Lui che è provvidenza, del suo prendersi a cuore le vicissitudini che caratterizzano la nostra storia personale e familiare. Se non ci perdiamo nell’abbraccio dell’altro/a è perché abbiamo paura che la sua presa non ci tenga saldi e non ci salvi dai pericoli, come se non ci lasciamo alla cura che la persona amata ha di noi è perché non crediamo che veramente ci ami e sia capace di prendersi a cuore la nostra vita ed essere segno della cura e della tenerezza del Padre celeste. Anche la fiducia è un cammino da condividere e da imparare. Non si può pretendere la dinamica del perdersi, ma siamo chiamati ad attuarla con abnegazione e pazienza, con gioia e dedizione, con impegno e volontà.
Cosa siamo chiamati a perdere? In cosa facciamo ancora fatica a fidarci e a consegnarci? C’è qualcosa che teniamo per noi, senza renderne partecipe gli altri? Perché è così difficile essere un libro aperto, comunicare ogni pensiero, trovare tempo per darsi e dare ai nostri rapporti familiari lo spazio che meritano? L’organizzazione delle nostre vacanze prevede tempi per condividere, parlare, programmare il prossimo anno, pensando insieme, come coppia e come famiglia, a ciò che è più opportuno e fruttuoso per tutti? In che modo, in una società incentrata sul profitto ad ogni costo, educhiamo i nostri figli alla gratuità e alla logica del perdersi, vivendo la carità verso quanti non riescono a sbarcare il lunario in modo degno?
Vedere Gesù nell’altro
Il nostro brano si può dividere in due sezioni. Nella prima (vv. 37-37) il Maestro indica le condizioni radicali da attuare nel cammino della sequela, per un annuncio proficuo del regno, mentre nella seconda parte (vv. 40-42) l’accento è posto sulla certezza di essere portatori di Cristo, vivendo nell’umiltà il proprio ruolo di mediatori tra il Maestro e quanti vengano raggiunti da lui con la nostra parola. “Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato” (v. 40). Il Signore vuole che il discepolo da Lui inviato abbia una diversa percezione della realtà, sia della parola che annuncia e trasmette perché non è sua – come anche la parola che Cristo dona è del Padre che lo ha mandato – ma, al tempo stesso, sappia che riuscita o fallimento non riguardano il discepolo, ma direttamente il Signore che manda. Di questo dovrà convincersi Samuele che, dispiaciuto perché il popolo chiedeva un re, sentì il Signore che gli diceva “Ascolta la voce del popolo, qualunque cosa ti dica, perché non hanno rigettato te, ma hanno rigettato me” (1Sam 8,7). Paolo dovette essere ben consapevole della mediazione del suo ministero se, scrivendo ai Corinzi, presenterà la medesima realtà – “In nome di Cristo siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta” 2Cor 5,20 – che determina tanto nell’inviato quanto in chi riceve la buona Novella la capacità di vedere all’opera Dio stesso, come autore e contenuto dell’annuncio. L’atteggiamento che ne deriva è quello dell’umiltà, con umiltà incontro Dio che si rivela a me nella parola dell’altro, nella sua semplice presenza, nel suo venirmi incontro ricco dell’autorità ricevuta da Cristo, umiltà in colui che è mandato perché deve riconoscere che “questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi” (2Cor 4,7). In tal modo l’evangelizzatore non si inorgoglirà per i successi perché “chi si vanti si vanti nel Signore” (1Cor 1,31), né si scoraggerà nell’incomprensione e nel rifiuto perché è Cristo che in Lui non è stato accolto, amato ed ascoltato.
Abbiamo bisogno di ripensare la dinamica della fede nella nostra vita. Dio mi si dona attraverso l’altro, ma anche io trasmetto Dio senza mai divenire padrone della sua azione e della grazia sua che misteriosamente mi abita. Quando il Signore vede che noi ci insuperbiamo per il bene che compie in noi, può anche ritirare da noi la sua compiacenza e farci diventare muti, perché non glorifichiamo il suo nome, ma ci serviamo di Lui per il nostro vanto. Solo l’umiltà è il collirio che guarisce i nostri occhi incapaci di vedere Dio all’opera nella storia e di riconoscere che il bene da noi operato viene solo da Dio che si serve di noi, quando pronunziamo il nostro Eccomi alla sua volontà.
Dobbiamo sentire di portare Dio sempre e di trasmettere la sua vita che riverbera in noi. Questo significa essere cristiani, portare Cristo dovunque, perché Egli vuole avere bisogno di noi nel raggiungere gli estremi confini della terra. Come il Pane ed il Vino sull’altare mediano Dio lasciandosi abitare dalla sua presenza umile, ma vera, operante e viva, così anche noi possiamo offrire al Signore quello che siamo perché la sua presenza salvifica permei la storia attraverso il nostro semplice testimoniarlo. È necessario educarci a percepire la presenza e l’azione di Cristo in noi e negli altri, assecondare la sua azione, lasciarlo parlare ed agire, lasciandogli lo spazio che Egli desidera da noi. Noi siamo continuamente chiamati a vedere l’Invisibile nelle persone che ci sono accanto, a scorgervi Dio perché tutti siamo immagine e somiglianza sua. Questo significa che dobbiamo cercare di vedere maggiormente il bene e non tanto il male in noi e negli altri, mettendo ogni nostro impegno perché Dio ci cambi ancor di più per essere segno della sua grazia, della sua misericordia e del suo amore.


È importante nella vita di coppia ed in famiglia vivere questa percezione di fede. L’abbraccio dell’altro mi dona Dio, la sua tenerezza ed il suo affetto, la cura che mi concede, l’attenzione che mi offre media la presenza del Signore che è la sorgente dell’amore. In tal modo devo rivelare Dio nella mia vita perché sia visibile per l’altro/a. La dinamica sacramentale che le nozze determina negli sposi cristiani è rendere evidente l’amore di Dio tra di loro e per gli altri. Perché offuscare questa dolce presenza? Perché impedire che Cristo ami e raggiunga l’altro/a attraverso i miei gesti ed il mio cuore? È necessario vivere la reciprocità nel donarsi Dio. Ci possono essere anche dei momenti in cui lo sposo o la sposa chiede un amore maggiore, ma questo non deve mai portare a tirare i remi in barca, lasciando solo all’altro/a il compito di rivelare Dio ed il suo amore. Quando succede questo si attiva la pretesa e l’egoismo e la circolarità della visibilità dell’amore e del dono tra gli sposi si smorza. Se uno demanda all’altro/a la parte che gli spetta la reciprocità cade e la relazione è unilaterale, non di scambio. Tutti siamo chiamati a rendere manifesto Dio e a vederlo all’opera nella vita dei fratelli. È questo anche il senso della comunità parrocchiale e della vita religiosa perché solo l’amore reciproco rende bella, incisiva nella storia e credibile la nostra testimonianza di Gesù Cristo, nostro Signore e Salvatore.
Sono i piccoli gesti che rivelano il cuore
In amore ogni gesto, anche il più piccolo, ha il suo significato e la ricompensa che determina non è il guadagno umanamente compreso – l’amore è premio e meta a se stesso, amo perché amo, amo per amare, dice san Bernardo – perché il Maestro ci assicura che nessun gesto di amore andrà perduto, dimenticato, incompreso. L’amore genera amore e noi dobbiamo solo permettere che questa catena che parte dal Padre trovi in noi un anello di collegamento e di trasmissione perché in Cristo raggiunga ogni uomo. Per chi ama nulla è insignificante, ma tutto è segno della presenza è dell’opera di Dio. Abbiamo così tante occasioni per incontrare e manifestare Dio, impegniamoci a non sciuparle e a saper apprezzare le piccole cose della nostra vita che, se sommate, rendono meravigliosa e stupenda la nostra storia.
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