«La vita [non] fa schifo»

Fonte:
CulturaCattolica.it
«L’uomo di oggi muore di sete. Non c’è che un problema, un solo problema al mondo: restituire agli uomini un significato spirituale, delle inquietudini interiori. Non si può vivere solo di frigoriferi, di politica, di bilanci e di parole crociate, è chiaro. Non si può vivere senza poesia, senza colore, e soprattutto senza amore»
(Antoine de Saint-Exupéry)

No, non è rete che salva, la rete di internet: Facebook, Whatsapp, Instagram, Ask... Non attutiscono i colpi della vita: sono reti virtuali. Non servono a niente, se nel cervello ti frulla l’idea di spalancare la finestra e lasciarti cadere.
Ha registrato un messaggio vocale nel telefonino, «la vita fa schifo», la dodicenne della provincia di Genova che ieri, mentre la mamma infermiera era al lavoro, e pure il fratello più grande, ha accostato la sedia alla finestra e ha fatto un salto di venti metri. Ha lasciato queste poche parole e si è gettata. Vuoto per vuoto, avrà pensato, facciamola finita.
Non c’erano problemi particolari, si affrettano a dire; la ragazzina, che da pochi giorni aveva iniziato la seconda media, non è mai stata oggetto di bullismo. Forse, ecco, la ferita della separazione dei genitori. Forse…
«La vita fa schifo». E dopo questa frase io mi immagino un punto; non il punto esclamativo di una rabbia incontenibile, della goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il punto del dato di fatto assodato. Il punto della rinuncia a chiedere, a verificare, a cercare ancora. Il punto di chi getta la spugna, no, si getta lui.
E’ come l’avesse detto a me, che «la vita fa schifo», a me, che non l’ho mai conosciuta. Sì, l’ha detto a me. Ed è un grido sordo, il suo, il grido che cova in chissà quanti altri adolescenti proprio nelle nostre città, nelle nostre scuole, proprio adesso, e che sconquassa il cuore.
Dove eravamo, tutti, mentre questa ragazzina, a modo suo, chiedeva aiuto? Non si è confidata con nessuno, dicono; non ha fatto percepire il suo dramma né alla mamma né a suo fratello, e non stento a crederci. Ma ci sono silenzi che parlano, e che noi adulti dovremmo saper ascoltare. Perché, cari ministri che vi siete succeduti in questi anni, non sarà lo smartphone in classe (usato bene, certo, la commissione ministeriale sta vagliando, gli esperti si sono riuniti, ci manderanno le linee guida…) non sarà lo smartphone, non sono le Lim, il Piano-Triennale-dell’-Offerta-Formativa, il curriculum per competenze, le attività intra ed extra scolastiche... non saranno i progetti nell’ambito del PON, né gli esperti che entrano ed escono dalle classi, a rendere meno schifosa la vita di un adolescente che dice «la vita fa schifo» e poi non trova di meglio da fare che lanciarsi dalla finestra. Non sarà la marijuana legale o la fluidità di genere garantita dalla legge – deciderai da grande se ti senti più maschio o più femmina o un po’ e un po’ – a convincere un adolescente che la vita vale la pena.
E noi? Gli adulti della sua famiglia, gli adulti della sua scuola, gli adulti che ha incontrato nel suo cammino, noi che abbiamo figli, nipoti, figli degli amici, vicini di casa, studenti come questa ragazzina, con lo stesso groviglio nella mente e nel cuore… dove siamo, con che occhi guardiamo questi adolescenti per i quali il male di vivere pesa come un macigno, e non li stiamo aiutando a farsi le spalle per reggerlo? Distratti, in altre faccende affaccendati, o più sguarniti noi delle giovani generazioni, non vogliamo, non sappiamo tendere la mano (le mani tese sì sarebbero rete e proteggerebbero, attutirebbero gli inciampi della vita!...)
Interrogano me, le parole di questa dodicenne, e mi chiedono come testimonio (non con i discorsi, con l’esempio) che la vita alle volte fa male ma merita lo stesso. Anche se dai tiggì non si vede. Anche se a volte nelle famiglie in crisi sembra di no. 
E’ che, cari ministri, per insegnare il mestiere di vivere, oggi come ieri, oggi più di ieri, occorrono uomini e donne che sappiano dare ragioni della speranza che è in loro, non basta partecipare ai corsi sulle competenze o scaricare una app.

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