Lettere alla madre

Don Lorenzo Milani - 
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“La mia liberalissima Mamma”
“Tanti hanno scritto della durezza, dell’ironia, della spietatezza di mio figlio, uomo e prete, e per un verso hanno ragione… Voglio che Lorenzo sia conosciuto meglio. Che si dica anche della sua allegrezza. E’ per questo che non escludo, prima o poi, di pubblicare anch’io una scelta delle sue lettere”. Chi parla così è Alice Weiss, la madre di don Lorenzo Milani, Priore di Barbina, di cui quest’anno ricordiamo il 50° della morte.


Alice faceva quella promessa in un’intervista del 1970 a Nazzareno Fabbretti e, dopo tre anni (febbraio 1973), pubblicava 175 lettere del figlio a lei indirizzate. Da queste traspare con estrema limpidezza l’affetto tenerissimo che Lorenzo nutriva per la madre. Essa era per lui amica e confidente, luogo di rifugio e polo dialogico cui rivelava le cose più intime, le gioie e le preoccupazioni, i progetti e le iniziative pastorali.
Arrivava a farle pazientemente copia dei documenti importanti che scriveva o riceveva. Le chiedeva sempre il parere, anche se poi faceva a modo suo. Lei rispettava le opinioni del figlio (“la mia liberalissima mamma” la definisce in una lettera). Naturalmente, se qualcosa non gli tornava Lorenzo non se ne stava zitto, ma con la madre si limitava ad usare un tono dolce e rispettoso, a differenza di quanto faceva con gli altri.

Il tutto è confermato da Alice nell’intervista citata: “Con me Lorenzo fu sempre tenero, affettuoso, devoto. Devoto, ecco la parola: la sua per me era una vera devozione. Non mi ha mai preso in giro, nemmeno affettuosamente, non ha mai giocato con me con quei sarcasmi che tanti altri, a loro spese, hanno conosciuto di lui”.

Alice, donna intelligente e colta, sensibile e riservata, era un’ebrea di origine boema; era cresciuta a Trieste dove la famiglia si era trasferita per lavoro (Trieste, allora, apparteneva all’Austria). Nel 1919 sposò Albano Milani con rito civile; lei infatti era ebrea non praticante e il marito cattolico, ma ugualmente non praticante. Scelsero di non dare alcuna educazione religiosa ai tre figli: Adriano, Lorenzo, Elena. Più tardi, nel 1933, a motivo dell’avvicinamento politico del Fascismo all’antisemitismo nazista, i coniugi Milani, per ragioni di sicurezza, decisero di contrarre matrimonio cattolico e di battezzare i figli. Lorenzo aveva 10 anni. Solo per lui quello fu un atto che ebbe conseguenze ecclesiali in futuro.
Di lì a poco, chiese di ricevere la Cresima e dopo un lungo travaglio interiore all’età di 19 anni si convertì totalmente. La madre, più tardi, confiderà ad un amico: “Lorenzo ha avuto la grazia di credere e io no. Fra noi non c’è mai stato il minimo contrasto. Io ho sempre rispettato la sua libertà e lui ha sempre rispettato la mia”.

Ma quando, poco dopo la conversione, Lorenzo comunicò alla famiglia la decisione di entrare in seminario e di farsi prete, la reazione dei genitori fu negativa. “Mio marito ed io eravamo contrari, abbiamo sofferto per quella scelta. Ma non abbiamo fatto nulla per distogliere Lorenzo dal suo proposito. Lo conoscevamo bene, sapevamo che se aveva deciso per quella strada, nessuno lo avrebbe potuto dissuadere. Sapevo che era capace solo di scelte definitive, totali” E così è stato! Alla domanda: “Cosa ha provato davanti alla conversione del figlio?”, Alice risponde: “Come dirlo? E poi perché parlarne? Credo che questo appartenga solo a me, al mio cuore e ai miei ricordi.
Una cosa come quella è sempre un mistero, e io non posso presumere d’aver capito il mistero della vocazione religiosa di mio foglio… Per il resto, anch’io davanti alla sua decisione, e a tutto ciò che da essa è scaturito dopo, non mi sento neanche in diritto di capire, di sapere e di dire più degli altri solo perché sono sua madre. Sono una testimone che ha potuto vedere certe cose più da vicino, ecco tutto”.

Per tutta la sua vita, Lorenzo, nel rapporto con la madre si è sempre sentito il figlio, anzi “il ragazzo”, l’adolescente di sempre, mentre lei era “la Mamma”. Ecco una testimonianza del 1949 quando Lorenzo era prete già da due anni: “Cara mamma, spero che m’avrai perdonata la cattiveria che ti feci l’altra sera. Fai conto che io sia ancora un ragazzo e un ragazzo convalescente. Ma non ti preoccupare eccessivamente di tutto quello che ti ho detto.
Vedi che come uomo, piano piano, ho messo giudizio, bisogna darmi il tempo di invecchiare anche come prete. E’ una vita troppo complessa per imparare a viverla in pochi anni! Io mi ci sono messo con pazienza e mi preoccupo soltanto di far meno male possibile, in attesa di poter un giorno fare anche del bene vero e onesto, se Dio avrà ancora pazienza con me!”

Nelle lettere riscontriamo questa totale apertura e la piena fiducia che lo legava a lei ma, soprattutto, riscontriamo la parabola di un uomo e prete che si è gradualmente espropriato di sé per consegnarsi totalmente a Cristo nel servizio alla chiesa e alla promozione umana degli ultimi. La madre rispondeva puntualmente alle lettere del figlio, ma queste non sono pervenute fino a noi. Sfogliando il carteggio cercherò di cogliere qualche elemento o passaggio che rivela un aspetto particolare della personalità umana e spirituale di Lorenzo.


Le 175 lettere possono essere divise in tre gruppi seguendo l’iter della vita di don Milani: lettere dal Seminario (1943-1947), da S. Donato di Cadenzano (1947-1954), da Barbina (1954-1967). In tutte troviamo alcune costanti, ad esempio: notizie sulla sua salute e richiesta sulla salute dei familiari; informazioni inerenti alle attività della scuola; pressanti inviti alla madre di fargli visita, ecc.
Le lettere dal Seminario (1943-1947)

“Mi trovo bene come non avrei mai sperato. Sii contenta con me!” Lorenzo entra in seminario nell’autunno del 1943. Da subito avvia un intenso dialogo epistolare con la madre. Racconta le sensazioni, le scoperte, le sorprese che vive in quell’ambiente per lui del tutto nuovo utilizzando con abbondanza la sua innata ironia per riferire usi e tradizioni ecclesiastiche lontane dalla sua sensibilità laica, a partire dagli Esercizi spirituali che nei seminari precedono l’inizio dell’anno scolastico: “Cara mamma, stamani sono finiti gli Esercizi, i quali consistono in star zitti per 4 giorni e sentire 16 prediche.
Lo stare zitti sottoscriverei a seguitarlo tutto l’anno col vantaggio di non dire sciocchezze, ma le prediche per ora mi bastano. Finora ho trovato tutti carini, forse perché finora non han detto una parola. Ah! se si potesse star zitti tutta la vita, forse sarebbe la volta che diventeremmo cristiani… Come si dorme bene nel letto fatto da sé… Si mangia ogni giorno meglio: certe minestre piene piacerebbero al babbo e carne continuamente. E poi è tanto buono il pane…”.
E poi la scuola: “Il Rettore ci fa Morale. Non ne ha studiata molta, ma ne ha vissuta tanta che è l’ora più appassionante e simpatica. Ha molta chiarezza, senso pratico e vita, a differenza di Mons. Masini che fa Dogmatica così freddamente da renderla odiosa. Ho avuto scuola di Gregoriano. Il Gregoriano è una gran bella cosa; varrebbe la pena di stare in seminario solo per lei…”

Questi racconti un po’ pittoreschi e ironici sulla vita, i personaggi e le cose del seminario si concludono con un’affermazione vitale per Lorenzo: “Mi trovo bene come non avrei mai sperato, per cui sii contenta con me, perché sono contento io”. La gioia espressa dal neo-seminarista è confermata dalla madre: “La vocazione di mio figlio nacque per gradi.

E nacque da un senso di vuoto, di insoddisfazione. Entrato in seminario, i primi tempi fu un ragazzo molto felice, felice come l’avevo visto poche volte. La nostra è una famiglia in cui si è sempre avuto tutto, dal pane alla cultura, dal prestigio al gusto per le cose belle. Ma solo in seminario Lorenzo trovò subito ciò che istintivamente cercava con tutto se stesso: una ragione assoluta per vivere, una disciplina costante”.

Una dimensione importante della vita del seminario è, inevitabilmente, lo studio. Così, Lorenzo riprende a studiare, sebbene con un metodo molto originale. Riferisce un suo compagno di classe: “Dal secondo al quarto anno di teologia sono stato in classe insieme a don Lorenzo e ricordo che quando veniva interrogato quasi faceva scena muta. Nasceva quindi in noi e negli insegnanti il sospetto che studiasse poco, ma in realtà egli studiava in una maniera diversa da tutti noi” (Elio Pierantoni).

Nell’approssimarsi degli esami confida alla madre: “I miei compagni si buttano a pesce a studiare e ripetere per gli esami… Io ancora non mi scompongo e navigo serenamente… Studio oggi come ai primi giorni dell’anno. Perché l’obbligo sub gravi che hanno i chierici di studiare riguarda il farsi una scienza sufficiente entro i 4 anni e non di passare gli esami anno dopo anno. Io invece di studiare “a peso” studio “a tempo”.

Il fatto è che Lorenzo studia e approfondisce le materie e gli argomenti che sono più congeniali ai suoi interessi, mentre ne trascura altri. Questo, però, non gli impedisce di chiedere ai genitori un regalo importante per il suo compleanno: “Mi son permesso di farvi fare a me un regalo per la mia festa pagana: la Summa Theologica di S.Tommaso in 6 volumi che costa 210 lire, ma a parte questo, è un meraviglioso libro”.

Comunica con gioia alla madre che il 25 marzo 1944 riceverà la Tonsura. Per lui ricevere la Tonsura significa avere conferma che la sua vocazione viene dal Signore perché lo sta chiamando il vescovo. E spiega: “la Tonsura è un piccolo impegno dalle due parti, specialmente da parte del vescovo”. La madre gli fa notare che questo impegno comporterà per lui la perdita della libertà.
Le risponde Lorenzo: “Mi dispiace che tu senta il peso della mia mancanza di libertà. Quando uno liberamente regala la sua libertà si libera dal peso di portarla. Magari potessi regalarla davvero!  La Tonsura non è che un bigliettino in cui si dice al Signore: “Spero tra due anni di poterti fare un regalo”. Il regalo che Lorenzo intende fare al Signore è il dono della sua vita, un dono totale, “un dono a perdere” per il servizio e la promozione degli ultimi.

Ancora una sottolineatura circa la corrispondenza di Lorenzo con i familiari negli anni del seminario riguarda una lettera in cui chiede ai genitori l’esplicita accettazione della sua scelta vocazionale. La indirizza al padre. “Caro babbo… profitto dell’occasione per parlarti del Suddiaconato. Vorrei il vostro esplicito permesso e consiglio e che sappiate bene cosa importa. E’ un impegno definitivo che mi prendo davanti a Dio, con me stesso, e con la società umana. Ha valore di voto… Mi impegno alla fede, al celibato, all’ufficio (breviario), all’obbedienza al vescovo e al servizio alla Chiesa fiorentina.
 Tutto questo lo sto praticando da 2 anni e mezzo e mi ci trovo molto bene. Io per me non ho dubbi e neanche don Bensi e don Giovanni che se ne intendono… Così mi pare di non stare facendo un’altra bambinata. Dimmi ancora cosa ne pensi te e la mamma (non per posta!”). Lorenzo, concretamente, chiede ai genitori non solo di accettare quella scelta per rispetto della sua libertà, ma di condividerla pienamente.
Il suo farsi prete non è “una bambinata” ma una vera scelta vocazionale, una decisione per la vita. Il sì dei genitori ovviamente arriva e Lorenzo viene ordinato presbitero insieme ad altri, il 13 luglio 1947 dal card: Elia Dalla Costa, in S. Maria del Fiore a Firenze. Intanto, però, il padre è venuto meno nel marzo del 1947.  Don Bensi più tardi dirà che Lorenzo alla sua prima Messa “era trasfigurato!”
Lettere da S. Donato (1947-1954)
“Mi godo il mio Dio che m’ha dato un mestiere col quale posso divertirmi! Il 3 ottobre 1947 don Milani è ufficialmente assegnato a S. Donato di Cadenzano come aiuto all’anziano parroco don Daniele Pugi. Lo stesso giorno Alice, con una punta di disincanto, scrive alla figlia Elena: “Non sappiamo neanche dov’è il posto. Cadenzano è tra Sesto e Prato. Ma S. Donato? E così anche questo è risolto nel modo che più temevo: una sperduta parrocchia dove Lorenzo s’impantana. E’ meglio non attaccarsi a nessuna speranza o illusione”.

L’assegnazione di don Milani alla parrocchia di S. Donato ha un entroterra che val la pena evocare: l’anziano parroco don Poggi da tempo chiedeva alla Curia vescovile un prete come aiuto per le attività pastorali. Nell’estate del ’47 incontra il Vicario vescovile, mons. Mario Tirapani, e per l’ennesima volta gli fa presente ala sua situazione. Il Vicario gli dice: “Abbiamo tra i sacerdoti novelli un tipo che nessuno vuole (si tratta proprio di Milani): una vocazione adulta, di una famiglia mezza ebrea, recuperato da don Bensi e che già in seminario ha fatto un po’ confondere.
Se tu te la senti di prenderlo e di provare…! Don Pugi prontamente replica al Vicario: “A me va’ bene in tutti i modi: purché dica Messa e confessi. Per il resto ci arrangeremo”. L’arrivo di don Lorenzo nella nuova parrocchia avviene il 9 ottobre, sotto la pioggia mentre le campane suonano a festa. Il giorno dopo Lorenzo “felice” scrive: “Cara Mamma, è tanti anni che aspettavo questo giorno, non di lasciarti naturalmente, ma d’avere un mestiere e di guadagnare! Per me è sempre venuto prima di ogni altro sogno d’apostolato o altro e poi anche per l’apostolato è la premessa necessaria… Ora sono felice e vorrei che lo fossi anche te”. Sicché l’entusiasmo di Lorenzo smorza il pessimismo della madre.

Subito s’immerge nell’apostolato. Scrive alla madre: “Oggi (il parroco) m’ha mandato a girare i malati. Ne ho visti 13, confessati e ascoltate tutte le loro malattie e acciacchi. Mentre ieri l’altro mi è morto Dario di tetano. Era uno dei 4 bambini senza babbo. E’ successo a Querceto, sicché sono andato lassù e ci sono stato ininterrottamente 48 ore facendogli da babbo, da mamma, da prete e da infermiere. Ieri mattina alle 2 l’ho spedito al suo babbo e son tornato a casa”.

Si offre a tenere le lezioni di religione alle scuole elementari. “Sono 20 ore a classe. Io, furbamente ho chiesto di far mezz’ore, così i ragazzi sono più attenti e invece di 20 sono 40 giorni, cioè tutto l’anno. Avrò 10 classi, cioè quasi tutto il mio piccolo popolo”. Si interessa anche al mondo del lavoro: “Ho visitato con grande gioia una cementizia e nelle prossime settimane spero di farlo come sistema”.

Ma presto affiorano anche le prime delusioni provenienti dal ministero. Scrive alla madre: “La gente è vile e cattiva. Se non lo si sapesse già in partenza che il nostro è il mestiere dei fiaschi ci sarebbe da scoraggiarsi. Tutto casca, tutto muore, rutto s’arena e ci vuole fede per pigliare iniziative nuove e far finta di non sapere che fra 6 mesi saranno morte anche quelle”.

Ma poco dopo affronta un tema-chiave che unifica tanti elementi che ispirano il suo modo di essere e di operare: “Non sono contento se la mia vita non ha ogni attimo la stessa intensità… La gente pretende (giustamente) da noi che si sia sempre “presenti” alla loro tragedia. Ci vogliono magari male, ma hanno ancora una così alta stima del sacerdozio che quando arrivano col loro problema (interno o esterno che sia) non possono sentirsi dire (che il prete) è a tavola, o a letto o è in ferie senza sentirsi offesi dal contrasto colla gravità del loro problema”.
E’ in questo contesto che don Milani ci fa intravedere un’eco del suo itinerario verso il sacerdozio. Infatti, così conclude la lettera: “Io son sereno solo quando il mio pensiero o attività non stona con nulla d’altrui che possa accadere. Io smisi di fare il pittore solo per questo”. In quello stesso periodo da Francoforte, in Germania, dove si è recato per motivi di salute, manifesta alla madre una grande nostalgia per la sua gente di S. Donato: “Sono estremamente attaccato al mio ingrato popolo, che poi non è tanto ingrato, e ho l’impressione che non potrò mai viverne senza, anche se non potrò mai andarci d’accordo… Voglio loro un gran bene e non vedo l’ora di poter di nuovo giorno per giorno ora per ora ri-dividere gioie dolori perdite e conquiste odii e amicizie. In una parola ricominciare a leticare senza interferenze di curia e senza reticenze forzate”.

Nell’autunno del 1949 don Milani avvia a S. Donato la scuola popolare serale nei locali parrocchiali, con diploma finale riconosciuto dal ministero. Proprio nella scuola egli impegna gran parte delle sue energie. La vorrebbe aperta sia agli uomini che alle donne, ma don Pugi è contrario alla partecipazione delle donne vista anche l’ora tarda delle lezioni. Da quando vive a S. Donato, Lorenzo, a più riprese, propone alla madre di andare a vivere accanto a lui.
Ma lei si mostra titubante e, forse per avallare il suo “no”, lo invita a riflettere sul fatto che sarebbe poco onorevole per lui, prete, che sua madre non frequenti la chiesa e i sacramenti perché non-cristiana e non credente. Lorenzo le risponde: “Come puoi pensare che io sia così chiuso d’aver bisogno che la mamma del prete vada in chiesa? Se tu mi farai l’onore di venire a stare con me non avrai mai da venire in chiesa, e nessuno avrà nulla da ridire perché tutti sanno come la penso…
Invece te sei la Mamma e io fin dal principio ho sempre fatto il piano che quando verrai con me io ti farò servire e riverire da capo a piedi e perché tu ci possa stare rinuncerò anche alla povertà e a ogni cosa e vedrai che ti troverai in pace e mi farai da direttrice spirituale e da padrona di casa e avrai l’alta direzione dell’asilo e della scuola popolare mista che metteremo su insieme fra pochi anni”.

Nel suo modo di comunicare e raccontarsi alla madre, sembra che Lorenzo l’abbia realmente scelta come polo di discernimento e guida, soprattutto nell’ultimo periodo del suo ministero a S. Donato, il più tormentato. “Cara Mamma – le scrive – sembra che tu abbia un sesto senso a domandarmi se ho leticato. Infatti ieri ho fatto una leticata che forse sarà decisiva. Con una canonico di Prato che era qui a predicare. Ho l’impressione che la mia carriera ecclesiastica stia precipitando.
Ma te non cominciare a allarmarti, te devi preoccuparti solo ch’io sia sereno e buono. E sereno sono. Mi par d’essere al cinematografo all’ultime battute d’un film a lieto fine. Il film a lieto fine è il mio lavoro a S. Donato. Mi son tolto tutte le soddisfazioni, ho potuto lavorare come m’è parso e piaciuto, non son mai stato costretto a compromessi... Considera questi anni come una mia creaturina. Quello che importa non è che sia lunga, ma che sia rifinita bene e senza stonature.
Se mi riesce a portarla in fondo così, non temere che io ne serbi rimpianti o tormenti… Lo scambio dei preti avverrà nei prossimi giorni perché c’è i preti novelli… Per me non c’è nessuna possibilità di restare qui. Sono decisissimo a non difendermi e a non lasciarmi difendere da amici. Anche te non muovere nulla e non parlare con nessuno perché ti assicuro che sono contento così. L’unica cosa che mi farebbe male sarebbe se mi condannassero dottrinalmente.
Ma questo non dovrebbe poter avvenire perché ho sempre guardato d’esser cristiano e cattolico e ho sempre chiesto di morire in questa fede. E del resto mi ci sento ogni giorno più vicino tant’è vero che mi dedico tutto alla sua diffusione e tutta la divergenza è soltanto sul modo di diffusione… Uno può leticare con tutti i suoi fratelli ma resta sempre di quella famiglia. E questo è quello che è venuto a me”.

Il 12 settembre 1954 muore il parroco don Pugi. Lorenzo scrive alla madre: “Qui la guerra infuria” I preti del territorio accusano Milani di essersi comportato da “nemico del parroco!” E lui con amarezza commenta: “Io l’ho amato e assistito per 7 anni e ora sarei il suo nemico?... Mi ha urtato la volgarità di contrappormi al Proposto. Se mi attaccavano sul piano delle idee e dei metodi sarei stato semplicemente zitto ad aspettare la risposta dall’alto. Ma questa invece è una frode. A me preme che la questione sia impostata nei suoi termini reali e cioè sul giudizio sulla Scuola popolare, la politica e ogni altra questione di metodi pastorali o idee”.

Poi aggiunge qualcosa che lascia trasparire tutto lo spessore morale dell’uomo e del prete Milani: “Ti prego di non far nulla neanche te… Bisogna che tu tenti di capire che un S. Donato brigato, oggi non mi vuol dir nulla e domani non sarà che un continuo tormento interiore, e leticare esteriore coi preti. Non te le posso spiegare tutte perché ci vuol troppo, ma ti assicuro che senza questa premessa fondamentale dell’essere nel posto in cui ci han messo le circostanze e non in quello che s’è scelto, non è possibile impostare religiosamente nulla: dalle decisioni più grosse fino ai più piccoli particolari della vita interiore e esteriore di ogni giorno”.

In questo contesto di polemiche con la Curia e di colpi bassi da  parte del clero locale nei confronti di don Milani, la gente comune gli mostra tanta solidarietà: “Sono giornate snervanti – scrive alla madre – ma c’è anche un’infinità di attestazioni di affetto. L’attaccamento delle vedove, degli orfani, dei giovani contadini in un modo o in un altro è commovente. Da tutte le parti vogliono partire commissioni e raccoglitori di firme… ma io li ho dissuasi”. E subito aggiunge con ulteriore amarezza: “Quello che dà più all’occhio è questo affanno di preti a eliminarmi che veramente fa pensare più all’invidia che al timore che io faccia del male”.


Pochi giorni dopo il Cardinale lo nomina parroco di Barbiana. Una minuscola e sperduta parrocchia sul monte Giovi, nel comune di Vicchio, di cui si era già decisa la chiusura. Mamma Alice scrive alla figlia Elena: “Ieri nomina di Lorenzo a una chiesetta di montagna (Barbiana): 220 anime sopra Vicchio. Io ne sono molto dispiaciuta, speravo ancora…”.
Lettere da Barbina (1954-1967)
“La grandezza di una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui si è svolta”. Il 6 dicembre 1954 don Milani giunge a Barbina. “Entrò in Chiesa pregò e pianse” racconta un testimone. Ma non si deprime, e quella stessa sera pensa di avviare l’esperienza della scuola. All’inizio raccoglie quattro allievi ai quali, presto si aggiungono due ragazze. Il giorno dopo scende negli uffici del comune di Vicchio e fa un gesto strano (ma non troppo!): acquista una tomba nel piccolo cimitero di Barbiana situato a poca distanza della sua chiesa.
A un amico prete che, appresa la notizia, gli rivolge una battuta ironica (“Quanto tu sei bischero!”), lui replica che la tomba lo avrebbe fatto sentire totalmente legato alla nuova gente, nella vita e nella morte! Il suo vuole essere un gesto implicito |per tagliare l’erba sotto i piedi di quanti a Firenze e altrove pensano che Barbina sia per lui solo un luogo di passaggio, in attesa di una sistemazione più congeniale ad una persona del suo calibro.

Anche la madre lo invita a non impegnarsi a stare a lungo in un luogo così poco ospitale quale è Barbiana. Ma Lorenzo le scrive: “Non posso credere che tu desideri che io mi metta nello stato d’animo del passante o del villeggiante… E neanche c’è motivo di considerarmi tarpato se sono quassù. Perché la grandezza di una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui si è svolta, ma da tutt’altre cose. E neanche le possibilità di far del bene si misurano dal numero dei parrocchiani!” Dopo qualche giorno, con orgoglio, informa la madre: “Qui la scuola va’ già a gonfie vele. Dei ragazzi non manca nessuno e ogni tanto si affaccia anche qualche sposato”.

Ben presto la scuola di Barbiana acquista le caratteristiche che l’hanno resa famosa: lezioni da mane a sera, da lunedì a domenica, tutti i giorni dell’anno; materie di studio che abbraccia tutto lo scibile. E la scuola stessa che diventa luogo di pellegrinaggio da parte di studiosi e di curiosi, di giornalisti e di uomini di cultura. Le energie di don Lorenzo sono tutte protese a rendere la sua scuola una fucina che forgia i suoi giovani montanari alla vita.

Il rapporto che lo lega ai ragazzi diventa per lui sempre più forte. Li considera “figlioli” nel senso più completo della parola, attesta un suo amico. Parlando di loro, li definisce “la mia famiglia di Barbina”. “Volendo fare un confronto fra il don Milani di S. Donato e il don Milani di Barbina – spiega l’amico Bruno Brandini – direi che a Barbina gli si è sviluppato di più il senso paterno. Si sentiva davvero un babbo per quei ragazzi. Stravedeva per loro, non li giudicava in maniera oggettiva: proprio come fanno di solito i genitori con i figli”.
I sentimenti che prova verso i suoi ragazzi, per Lorenzo non sono un segreto, ma li manifesta candidamente a tutti, anche alla madre, la quale non se ne meraviglia più di tanto, infatti racconta: “A volte quando Lorenzo scendeva a Firenze, telefonava per comunicarmi qualcosa. Un giorno mi ha detto: ‘Ti chiamo ora perché prendo il treno delle tre’. Gli risposi: ‘Non mi avevi detto che prendevi quello delle cinque?’.
‘Ho fatto prima e quindi vado via prima’. Anche se non facevo commenti, il fatto mi colpiva. Dalle tre alle cinque sono due ore. E quelle due ore avrebbe potuto dedicarle alla mamma, invece tornava a Barbiana perché i ragazzi avevano più bisogno di lui”. La mamma aveva le sue amicizie, i suoi libri, il suo salotto, la sua bella casa comoda coi riscaldamenti, mentre i ragazzi non avevano che lui.


Proprio questo suo amore viscerale e totalizzante, don Lorenzo lo esprime in quel biglietto indirizzato ai ragazzi pochi giorni prima di morire: “Caro Michele, caro Francuccio, cari tutti, ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che Lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto!”
Il segreto di una vita
Tutto questo perché? Quale è stato il segreto della vita di don Milani? La madre, nell’intervista a Nazzareno Fabbretti, ci aiuta a individuare quel segreto: “Mi preme che si conosca il prete… quel sacerdote unico che Lorenzo è stato… Mi preme che si sappia la verità, che si renda onore alla Chiesa anche per quello che lui è stato nella Chiesa; e che anche la Chiesa renda onore a lui… Quella Chiesa che lo ha fatto tanto soffrire ma che gli ha dato il sacerdozio, e la forza di quella fede che resta per me il mistero più profondo di mio figlio… Se non si comprenderà il sacerdote che Lorenzo è stato difficilmente si potrà capire di lui anche il resto”. Lorenzo Milani è, innanzitutto, sacerdote di Gesù Cristo, questo il forte convincimento della madre.
Proprio lei, ebrea non credente, è sicura che ogni aspetto dell’essere e del fare di suo figlio: la passione che metteva in ogni cosa, l’amore incondizionato per i suoi ragazzi, il confronto a volte violento con la gerarchia della Chiesa (“la mia famiglia”, la chiamava), e perfino le sue famose invettive, avevano una radice comune: il suo sacerdozio che lo rendeva ministro e testimone di Cristo, l’uomo-per-gli-altri, colui che si è fatto tutto-a-tutti e si è speso totalmente per la salvezza ditegli uomini. Così è stato Cristo. Così ha cercato di essere lui, il prete Lorenzo Milani.

La conferma più autorevole della fondatezza di questa “lettura ermeneutica” della figura di don Milani ce l’ha offerta recentemente Papa Francesco che il 20 giugno scorso si è fatto pellegrino a Barbiana. “Sono venuto a Barbiana – ha detto quel giorno il Papa – per rendere omaggio alla memoria di un sacerdote che ha testimoniato come nel dono di sé si incontrano i fratelli nelle loro necessità e li si serve, perché sia difesa e promossa la loro dignità di persone con la stessa donazione di sé che Gesù ci ha mostrato, fino alla croce… La dimensione sacerdotale è la radice di tutto quello che ha fatto. Tutto nasce dal suo essere prete”.


Il Papa ha citato anche la madre di Lorenzo: “Diceva sua madre Alice: ‘Mio figlio era in cerca dell’Assoluto. Lo ha trovato nella religione e nella vocazione sacerdotale’… Questo prete ‘trasparente e duro come un diamante’ – ha concluso Papa Francesco – continua a trasmettere la luce di Dio sul cammino della Chiesa”.

Aurelio Antista

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