Essere prete nella Chiesa in dialogo

di Paolo Dall'Oglio 



Il gesuita rapito in Siria trent'anni fa veniva ordinato sacerdote. 
In un testo di allora scriveva: 
"L’Islam costituisce una prova, 
una sfida, 
un appello indiretto alla crescita e alla conversione, 
per conoscere e imitare Gesù"

Oggi, domenica 31 agosto ricorrono i trent'anni dell'ordinazione sacerdotale di padre Paolo Dall'Oglio, 
il gesuita romano sequestrato in Siria a Raqqa 
(la roccaforte dell'Isis), 
di cui non si hanno più notizie da più di un anno. 
In occasione di questa ricorrenza il sito della rivista Popoli 
pubblica un testo inedito, 
scritto da padre Paolo in occasione della sua ordinazione diaconale, che la famiglia Dall'Oglio ha deciso di rendere pubblico 
in questa ricorrenza. 
Un testo che dice in profondità chi è padre Paolo. 
Lo proponiamo anche qui, offrendolo alla riflessione di tutti....

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Il 30 ottobre sarò ordinato diacono 
nella Chiesa del Gesù (a Roma, ndr), alle ore 16 in punto, 
secondo il rito della Chiesa siriaca 
e spero poi di essere ordinato prete a Damasco l'estate prossima. 
Il diaconato è «l'ordine del servizio ecclesiale»: 
si tratta del sacramento dell'ordine in questa sua prima dimensione, «il servizio». 

Noi sappiamo che ogni uomo ha una vocazione, 
ma ci pare che una persona che si occupa 
di stare in rapporto con Dio per aiutare i fratelli a trovarlo 
e che continua a spezzare per loro il Pane di Vita 
sulla scia di Gesù e degli Apostoli, 
debba essere chiamato in un modo molto chiaro. 

Una certa volta, in un posto e ad un'ora precisi, 
ho avuto la chiara coscienza che il Signore mi voleva con lui 
a tempo pieno e con tutto me stesso, 
per essere una persona a sua disposizione 
da mandare secondo i bisogni del Regno; 
il tutto accompagnato da molta gioia...

Conoscevo già abbastanza i Gesuiti per intuire 
che in Compagnia avrei potuto realizzare quella vocazione... 
Ma sono meravigliato continuamente a causa di questa chiamata: 
la mia esperienza è che Dio non butta via nulla della persona, 
tutto deve essere e dovrà essere purificato 
e assunto per fare l'argilla con cui ci vuole plasmare. [...] 

In questi anni, con i miei «Superiori» 
abbiamo portato avanti un discernimento 
riguardo alla mia missione nell'ambito del lavoro apostolico 
della Compagnia di Gesù. 
Questa missione è, in tre parole, 
quella di essere prete nella Chiesa in dialogo.

In dialogo: 
cioè in apertura a Dio e al mondo, 
e qui penso che l'essere nato romano sia una grazia speciale: 
infatti mi pare che a Roma abbiamo una netta percezione, 
insieme coi limiti, anche della missione universale della Chiesa; 
e se non si cade nel «romacentrismo», 
si capisce che un servizio universale è possibile 
solo come apertura alla pluralità ed accoglienza della diversità.

Più in particolare il mio impegno è nella Chiesa siriana antiochiana (che è parte del puzzle della Chiesa in Siria). 
È un atto di rispetto, di affetto e di riconoscenza 
per una Chiesa rimasta fedele, nonostante un mare di difficoltà, 
al Vangelo ricevuto dagli Apostoli, 
e che ha dato alla Chiesa universale 
uno stuolo di santi, martiri, dottori... 
È una Chiesa fiera del suo patrimonio culturale e che, 
se ama pregare in Siriaco, 
lingua parlata anche da Gesù e dagli Ebrei 
del suo tempo in Palestina, 
non rifiuta di esprimersi in Arabo, 
di pregare in Arabo, 
la lingua dei figli d'Ismaele, dei Musulmani, 
con i quali il Signore l'ha messa a contatto da tanti secoli perché, nella fedeltà e nella sofferenza, 
si prepari il giorno del riconoscersi di tutti i figli di Abramo 
nell'unica Via, la Misericordia del Padre. 


La Chiesa siriana è attualmente divisa tra cattolici e ortodossi, 
ma si è fatta parecchia strada verso l'unità, 
e ancora se ne farà se nella Chiesa cattolica 
si affermerà sempre più uno stile di profondo rispetto 
capace di amare e valorizzare le diverse tradizioni 
e se in tutti prevarrà il desiderio di dare al mondo 
un'unica umile testimonianza. 
Cercherò di contribuire al dialogo islamico-cristiano 
con la chiara coscienza che non si può efficacemente 
fare questo lavoro se resta monopolio clericale 
e non diventa una via di molti per vivere il battesimo.
Questo impegno è sia dei Vescovi che, 
con l'aiuto del loro clero, 
garantiscono la continuità con Gesù, 
sia della chiesa tutta costituita dai Cristiani nel mondo 
i quali sono la continuità con Gesù. 

Ma se il dialogo non lo viviamo dentro, 
come lo predichiamo fuori? 
E se Chiese potenti e maggioritarie restano il modello di sviluppo, come pretenderemo che i cristiani che si trovano 
privi di potere o minoritari non sentano la tentazione 
di fare ghetto o di emigrare, 
come avviene in Medio Oriente? 
In quest'ottica l'Islam costituisce una prova, 
una sfida, 
un appello indiretto alla crescita e alla conversione, 
per conoscere e imitare Gesù, 
sia per i cristiani medio-orientali che per la Chiesa tutta. 

La Chiesa di oggi è chiamata, mi pare, 
a vivere anche qui a Roma, proprio qui a Roma, 
un processo di apertura alle grandi realtà non cristiane 
che ci circondano e che veicolano dei valori autentici 
o almeno delle esigenze autentiche: 
se lo spirito lavora in noi, 
ed il nostro processo di cristificazione, 
come singolo e come Chiesa, è avanzato, 
allora, senza paura, possiamo penetrare tutte le realtà, 
ed a contatto con esse ci sarà insegnato cosa dire; 
cioè la fede si veste di, 
si incarna in, 
si esprime con la realtà incontrata, 
ed io stesso, 
insieme al fratello incontrato, 
faccio un'esperienza nuova della multiforme Sapienza di Dio. 
Questo processo è quello dell'incarnazione 
e si applica alla vita concreta di ciascuno: 
famiglia, lavoro, cultura, ideologie... 

Beninteso, non sono io che mi incarno, 
ma è la verità che, attraverso il dialogo, avviene tra noi. 
È spesso più un problema di metodo che di etichetta. 
Con un mio carissimo amico musulmano dicevamo: 
«Ci sono solo due partiti: 
quello dell'estremismo fanatico 
(cioè in cui io sono il metro per giudicare gli altri) 
e quello di Dio 
(cioè il contrario del primo, e quindi il cercare 
e trovare la bellezza del suo volto in tutte le cose)»; 
mi pare che c'è qui un buon criterio di giudizio e autocritica 
per muoverci nel mondo e nella Chiesa oggi. 

Il dialogo è anche il mio impegno «politico» 
perché porta alla pace e alla giustizia, 
ma allora è evidente che non deve essere un dialogo 
di chiacchiere ma di segni e di fatti concreti. 
La mia esperienza medio orientale, 
ma bastano le nostre esperienze italiane, 
mi insegna che tutti i livelli dell'esistenza 
sono coinvolti nel conflitto dalla religione 
fino all'economia ed il dialogo si deve fare a tutti i livelli 
nella loro interdipendenza, 
e c'è veramente lavoro per tutti! 

Concludendo, 
è questo servizio (diaconia) del dialogo per la pace con Dio e tra noi che vorrei fosse il senso di questa mia ordinazione diaconale; servizio sempre necessario, 
e parte già di quell'azione sacerdotale che è la celebrazione del mistero di Gesù nostra pace. 
Col Salmo 122 vi chiedo: 
«Domandate pace per Gerusalemme... 
per amore dei miei fratelli ed amici, 
io dico: pace a te».

Con affetto, vi voglio un gran bene.

padre Paolo Dall'Oglio

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