Caterina e quella lettera a un bimbo mai nato...

di Paola Bonzi


A volte ci capita di dire al Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli: 
«C’è una signora che aspetta, ma è una storia tranquilla. 
La vedi tu?». 
Dati i numerosi anni di esperienza, 
le situazioni che vengono descritte come intricate, 
sono affidate spesso a me. 
Una mattina della scorsa settimana, però, 
non avevo cose urgenti da fare e, quindi, 
ho accettato di buon grado, il colloquio,
 descritto come semplice, con Caterina.

La sua persona è minuscola, dignitosa 
e il suo comportamento fa pensare a una donna educata, 
che versa attualmente in grande difficoltà. 
I soliti riti di benvenuto: «Si accomodi, mi chiamo Paola e, 
questo, è il Centro di Aiuto alla Vita. 
Il cappotto può appenderlo là. 
Desidera un caffè o qualcosa d’altro? 
Qui c’è un barattolo con le mentine della nonna, 
forse le tolgono un po’ di nausea». 
Ringrazia ma non vuole niente. 
Ha pronto in mano un fazzolettino 
come se sapesse già di dover piangere. 
La sua è una storia semplice che, come spesso dico, 
non vuol dire facile. 
Infatti, il marito, ruolo raro di questi tempi, 
ha perso il lavoro di magazziniere poiché la ditta ha chiuso i battenti. La cassa-integrazione? 
Sì, ma chissà da quando e per quanti mesi. 
Come si fa, in queste condizioni, con un bambino in arrivo?

«Mi faccia sentire i suoi pensieri, Caterina. 
Credo che lei sia venuta per comunicare le sue fatiche». 
«Fatiche ce ne sono tante. Lavoro come domestica, 
ma quando dirò della gravidanza, 
mi lasceranno a casa. 
Ho già una bambina di cinque anni che frequenta la scuola materna, ci va volentieri e mi sembra ben inserita. 
C’è l’affitto di casa da pagare e chissà come faremo». 
Mi viene da riflettere che non ha parlato 
di interruzione della gravidanza. 
«Come si è sentita quando ha saputo di essere incinta?». 
«Lo spavento è stato grande anche perché usavo la “spirale” 
e non avevo preoccupazioni almeno in questo senso. 
Poi sono iniziati i primi disturbi e mi sono insospettita. 
Sono andata al consultorio familiare dove mi hanno sempre seguita 
e, senza troppa meraviglia, mi hanno detto:
“Ah, ecco, si è spostata. 
Se, però, le condizioni economiche sono così difficili, 
può sempre abortire”. 
Non mi hanno parlato di nessun aiuto possibile».

Continuo a meravigliarmi. 
Non accenna a un’interruzione. 
«I fondi stanziati dalla Regione, sono finiti ormai da tempo. 
Anche noi stiamo facendo una grande fatica. 
Cosa dice suo marito e che cosa pensa di fare?». 
Ecco le lacrime per cui aveva preparato il fazzolettino. 
Sono copiose e le inondano il viso. 
«Non le ho raccontato tutta la mia storia. 
Quasi subito dopo la nascita della mia bambina, 
sono rimasta gravida e ho abortito. 
Non vorrò mai più rifare quell’esperienza!». 
Ora inizio a capire. 
Nonostante tutto ciò che di banalizzante si dice in giro, 
l’aborto procurato è un’esperienza devastante. 
Mi torna il ricordo tragico di una lettera 
di una donna che scrive al suo bambino abortito. 
Ne riporto di seguito qualche stralcio: 

«Caro Angelo, caro bambino, caro infinito amore, il mio bambino, come ti ho sempre chiamato. 
Per quanto tempo ti ho parlato, pensato, sentito? 
Dal primo giorno, momento, istante in cui ho capito che esistevi dentro di me, non ho mai smesso di pensarti. 
Non smetterò mai. 
Nella mia intimità ero spaventata 
ma in fondo visceralmente felice, 
ero quasi arrivata ad aver paura della mia felicità. 
Per me eri davvero una nuova vita, 
così confusa e distratta dalla realtà 
che mi ero creata intorno da non permettermi di capire. 
Infatti, non ho capito. 
Non dimenticherò mai i momenti in cui ho pensato
 che ce l’avrei fatta ad andare avanti, 
che sarebbe andato tutto bene. 
Poi l’Abisso, l’esplosione di tutta la fragilità 
nel momento in cui cercavo conforto 
e forza nella persona sbagliata: tuo padre.
Ti chiedo perdono, infinitamente perdono. 
Quante volte ti ho chiesto perdono? 
Ogni volta in cui ti ho pensato 
e non mi basterà una vita per ripeterlo. 
Ti chiedo scusa per non aver trovato la forza 
che ho sempre pensato di avere per portare avanti i miei desideri, 
per imporre i miei princìpi, 
per pensare e riconoscere che la vita 
è più bella di qualsiasi altra cosa al mondo, 
e viene prima di tutto».

«Ti chiedo scusa per la mia fragilità, 
la mia meschinità ma soprattutto per la mancanza di rispetto 
nei confronti delle nostre vite; 
perché sapevo che, una mamma può davvero pentirsi 
di un bambino non nato, ma mai di un bambino che nasce. 
Ti chiedo perdono per non averti amato abbastanza, 
ti chiedo perdono per non aver chiesto aiuto alle persone 
che me lo avrebbero dato, 
ti chiedo scusa per essermi fatta sovrastare 
da una forza negativa che con il suo rifiuto totale 
e senza alcun cedimento ha perseguito il suo obiettivo: 
liberarsi del problema. 
Non dimenticherò mai la sequenza terribile dei momenti, 
le visite, i colloqui, i pensieri, i sentimenti, 
gli stati emotivi, dal momento in cui ho deciso di gettare la spugna. 
Si perché alla fine ho deciso io: 
ho imposto a me stessa un sacrificio immenso. 
Ero spaventata per quello che sapevo mi sarebbe arrivato: 
il pentimento, il rimorso per un atto così contro natura. 
Ero proprio io che con forza dicevo no alla tua vita? 
Non scorderò mai la tristezza con cui rispondevo 
di voler interrompere la gravidanza, 
l’imposizione di non guardarti sul monitor dell’ecografia 
sapendo che eri li 
e il cuore ti batteva nel ventre della tua mamma 
che avrebbe dovuto essere per te un luogo sicuro, 
e non lo è stato».

«Caterina, il suo bambino ha scelto una brava mamma e, 
noi, lo aiuteremo a nascere». 
Il solito progetto d’aiuto, quello che l’ente pubblico non dà. 
E poi: «Grazie, il mondo torna a sorridermi. 
Sono certa che con il vostro aiuto ce la farò!».

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