«Il sacrificio del nostro piccolo Alessandro 
e quell'amore infinito che ci ha cambiato la vita»

di Costanza Signorelli


«Alessandro non è mancato invano. 
C’era un progetto da compiere 
e noi siamo stati soltanto gli strumenti di questo progetto. 
Una perdita che non è priva di significato, 
è come se si fosse consumato il sacrificio di uno, 
per la salvezza di tanti». 
Con queste parole si conclude il mio incontro con Luisa e 
- attraverso di lei – con una famiglia straordinaria. 
Perché, fuori dall’ordinario è il dolore che la famiglia Zancan 
ha dovuto e deve sopportare: 
il 28 aprile Alessandro è mancato, a soli dieci anni, 
per colpa di una malattia particolarmente spietata. 
Ma, soprattutto, fuori dall’ordinario è la forza, 
il coraggio e la speranza con cui Alessandro 
e la sua famiglia hanno affrontato la malattia e la sua partenza. 
Una modalità di vivere che è letteralmente straordinaria, 
ma possibile. 
Per questo abbiamo chiesto a Luisa di raccontarci questa storia.

Ci sediamo al tavolo della loro casa di Milano, 
e questa donna oltre alla sua estrema dolcezza e compostezza, 
mi colpisce per la sua maternità. 
Mai una volta parla di sé come un “io”, 
mai si concepisce sola, 
ma sempre come moglie e madre. 
Per questo, incontrare Luisa è stato per me 
come incontrare Giorgio, il papà e Sofia, l’altra figlia, 
ma anche Alessandro. 
Ad un certo punto della nostra intervista Luisa si ferma: 
«Dire che per noi Alessandro sia presente non sono semplici parole». 
E allora anche il modo di raccontare di lui è pieno di un amore 
e di un rispetto fuori misura. 
Di una sacralità che si può solo contemplare. 

Luisa chi era Alessandro?

«Questo bambino che noi abbiamo avuto 
e che riteniamo di avere ancora perché per noi è sempre presente 
è stato un bambino specialissimo 
che ci ha veramente regalato tanto. 
Ci ha regalato tanto soprattutto durante i suoi anni di malattia, 
ma anche prima. 
Era un bambino dalla sensibilità straordinaria, 
era quel bambino che a scuola veniva messo 
vicino ai compagni in difficoltà per aiutarli, 
quel bambino che sapeva dirti la parola giusta quando eri triste. 
Un bambino molto riflessivo 
ma anche pieno di energia e sempre in movimento. 
Noi spesso diciamo che lui era un adulto travestito da bambino 
e lo diciamo perché lui ci ha proprio insegnato tanto come genitori». 

Poi cosa è successo?

«Poi il primo di giugno del 2012, alle ore 12.00, 
hanno diagnosticato ad Alessandro 
una leucemia linfoblastica acuta di tipo T. 
In quell’istante la nostra felicità si è spenta. 
Da subito abbiamo cominciato tutti e quattro insieme 
a combattere per la sua guarigione, ma questa lotta - 
che inizialmente sembrava portarci alla guarigione - 
si è rivelata piano piano una lotta 
che andava contro le nostre speranze. 
Sono stati due anni di calvario, 
perché non c’è cosa peggiore per un genitore 
che vedere il proprio figlio soffrire e non poter fare nulla. 
Ad Alessandro è proprio capitato di tutto, 
ha avuto numerose ricadute. 
Quando la malattia è entrata nel sistema nervoso centrale, 
per un certo periodo ha perso la vista 
ed è stato paralizzato agli arti inferiori. 
Si può immaginare l’angoscia di un bambino dinamico e vivace, 
come era Ale, che improvvisamente viene tolto dalla sua vita 
e viene bloccato in un letto senza nemmeno poter vedere.  
A questo si aggiungevano le pesanti cure: 
la chemioterapia e la terapia cortisonica 
creano molta sofferenza. 
Perdita di capelli, nausea, dolori ossei 
e diverse altre sono state le complicazioni».

Tu e Giorgio, attraverso la "Fondazione GrandeAle Onlus" 
avete deciso di editare e pubblicare un libro 
che avete voluto intitolare: 
Alessandro Maria: una storia di un amore eterno. 
Perché di fronte ad un dolore così grande 
si può parlare di “amore eterno”?

«Quello che Alessandro ci ha lasciato dopo la sua partenza 
è questa consapevolezza: 
in realtà la vita che stiamo vivendo è fatta solo di attimi. 
La vita vera non è questa, è un'Altra. 
L’Amore è eterno nel senso che sopravvive a ogni cosa, 
anche alla morte e noi saremo legati ad Alessandro per sempre. 
Noi siamo fermamente convinti di questo. 
Siamo convinti che lui sia qui, che stia mandando dei segnali 
e che ci dica: “Papà, mamma, Sofia, state facendo la cosa giusta. 
Con la vostra croce, state costruendo una scala verso il Cielo. 
Una scala attraverso cui io potrò scendere e voi potrete salire”. 
E perciò siamo anche convinti che il vuoto 
che noi sentiamo tutti i giorni, 
che è una morsa che ci portiamo dietro in ogni istante – 
dormiamo poco e spesso abbiamo momenti 
di disperazione molto forti – 
siamo convinti che questo vuoto sarà colmato».

Cosa vi ha dato e vi dà questa forza?

«Abbiamo fatto un cammino di fede veramente profondo. 
Io e Giorgio veniamo entrambi da famiglie molto credenti, cattoliche, 
entrambe le mamme hanno fatto le catechiste in parrocchia. 
Però capita che la fede non incida davvero nella quotidianità: 
si è presi dagli impegni, dalla routine, dalle tante cose da fare, 
si corre sempre anche quando non c’è bisogno, 
e non si coglie la bellezza della quotidianità. 
Quello che ci ha insegnato Alessandro è proprio questo, 
ad apprezzare la vita nelle piccole cose. 
Quando lui si è ammalato, 
il solo fatto di poterci sedere a tavola insieme, tutti e quattro, 
per noi ha iniziato ad essere un miracolo, 
così come un miracolo era poter essere lì sul divano 
a guardare un film insieme. 
Tutte cose che per noi prima erano quasi banali, 
come lo sono per tutte le famiglie. 
Invece, da quando Alessandro si è ammalato, 
tutto per noi è diventato un dono del Signore. 
E, soprattutto, abbiamo visto che il nostro percorso di sofferenza 
aiutava noi ad apprezzare di più la quotidianità, 
ma aiutava anche tutte le persone che pregavano per Alessandro 
a rivalutare la quotidianità, a dare priorità nella vita 
a ciò che veramente vale. 
Abbiamo visto davvero un cammino di fede straordinario, 
non solo in noi, ma anche in tutte le persone 
che ci hanno accompagnato nella malattia».

Avete scritto che c’è stato per voi un 
“cambiamento profondo quanto alle priorità della vita 
e alla bellezza della quotidianità”

«Nonostante noi facessimo grandi sorrisi 
e lo rassicurassimo in continuazione, 
Alessandro si era accorto della sofferenza della sua famiglia. 
Una famiglia che non era più come prima: 
non facevamo più le vacanze insieme, 
la sua sorellina Sofia era spesso dagli amici, 
mentre noi stavamo in ospedale. 
Tanti, tanti giorni rinchiusi in una stanzetta di ospedale, 
al San Gerardo di Monza. 
Ricordo che noi eravamo lì fermi a guardare la luce dalla finestra, 
mentre tutti fuori andavano avanti con la loro vita. 
Tuttavia questa grande sofferenza, in realtà, ci ha portato – 
grazie alla preghiera, ai famigliari 
e agli amici che ci sono stati accanto - 
a credere che comunque il nostro dolore così grande 
potesse diventare un Amore infinito: 
l’amore che ci dava Alessandro 
e l’amore che lui riceveva da parte di tutti. 
Ma anche proprio l’amore di Dio. 
Siamo convinti che ci sia un progetto più grande, 
che noi ora, su questa terra, non riusciamo a comprendere 
perché stiamo vivendo una realtà troppo limitata, 
ma presto saremo di nuovo insieme e capiremo». 

Nel libro ci sono centinaia di testimonianze di persone 
che hanno pregato per la salvezza di Alessandro

«Da subito è nata una vera e propria catena umana di preghiera, 
fatta da tutte le persone che ci sono state accanto 
e che ci hanno letteralmente sorretto in questi due anni. 
Persone da tutta Italia, molte non ci conoscevano nemmeno, 
ma pregavano per Alessandro. 
C’era un gruppo di mamme che si era organizzato in modo che, 
ad ogni ora del giorno, salisse in Cielo un’invocazione alla Madonna. 
C’erano persone malate che offrivano la loro sofferenza 
per la salvezza di Alessandro. 
Addirittura ci sono stati amici che non erano mai entrati 
in una Chiesa e che da quando Ale si è ammalato 
hanno incominciato a farlo, per accendere un cero, 
per dire un’ Ave Maria o anche solo per essere davanti 
al Crocifisso e dire “Aiutaci”. 
Per noi questo ha avuto un significato profondo 
e questo ci ha dato la forza di andare avanti. 
Attraverso la malattia di Alessandro, 
abbiamo anche incontrato delle persone eccezionali: 
gli infermieri all’ospedale che sono degli angeli, 
i volontari che gli facevano passare 
anche solo poche ore di tranquillità, insomma, 
abbiamo incontrato un’umanità eccezionale 
che non conoscevamo».

Perché, ad un certo punto, 
avete deciso di portare Alessandro da Papa Francesco?

«Il 13 gennaio del 2014, trascorsi solo due mesi 
dal trapianto di midollo donato dalla sorellina Sofia, 
Alessandro ha l’ennesima ricaduta. 
A quel punto il dottor Jankovic, 
una figura importantissima per tutti noi, 
ci comunica che non c’è più alcuna possibilità di guarigione. 
Le speranze dei medici però non sono le nostre, 
perché noi ci siamo affidati e ci affidiamo totalmente a Dio. 
E’ così che decidiamo di andare dal Papa. 
Io e Giorgio spieghiamo ad Alessandro 
che il Papa è come Dio in terra 
e quindi se noi fossimo riusciti a toccarlo 
sarebbe avvenuta la sua totale guarigione, 
come quando Gesù passava tra la folla e guariva le persone. 
La sera prima di partire per Roma Alessandro scrive sul suo diario: 
“Domani io vado dal Papa perché lui è come Gesù, 
lui mi toccherà e io guarirò”. 
Il 15 gennaio 2014, arriviamo non dal Papa, 
ma tra le braccia del Papa, 
nonostante tutti ci dicessero fosse impossibile. 
É’ un viaggio che faccio fatica a ricostruire in modo preciso 
perché è stato come la sintesi di una serie di incontri, 
di eccezionali coincidenze, di numerose persone 
che si sono mobilitate per noi, anche a nostra insaputa. 
Noi non sappiamo ancora oggi chi tra i nostri amici 
e conoscenti abbia organizzato e mobilitato tutto quanto, 
sappiamo però che lo Spirito Santo ha messo la Sua mano. 
Finita l’udienza generale, abbiamo avuto la meraviglia 
di averLo davanti a noi. 
Per prima ha visto Sofia e le ha chiesto come si chiamasse. 
Lei Gli ha risposto: “Sono Sofia, Ti prego guarisci mio fratello”. 
Poi Giorgio -che aveva Alessandro in braccio 
perché non riusciva a camminare- 
d’istinto lo ha consegnato a Papa Francesco 
che lo ha tenuto a lungo tra le Sue braccia e lo ha baciato. 
Poi il Santo Padre ha ascoltato le nostre suppliche, 
ci ha guardato e ci detto: “Preghiamo!”». 

A pochi mesi dalla scomparsa di Alessandro, 
avete costituito una Fondazione che porta il suo nome 
“Fondazione Alessandro Maria Zancan o Grande Ale Onlus”. 
La Fondazione è stata inaugurata lo scorso 8 novembre 
e ha già raggiunto importanti obiettivi. 
Come nasce l’idea della fondazione e quali progetti sostiene?

«L’idea nasce proprio da Alessandro.
Lui scriveva nei suoi quaderni: 
“Se avessi un libro magico proverei a chiedergli la formula magica 
per guarire me e tutti bambini dell’ospedale. 
In questo modo tutti i bambini guariti potrebbero giocare 
e divertirsi come una volta e le loro famiglie sarebbero più felici. 
Al libro magico chiederei, inoltre, di aiutare i dottori 
a non fare più ammalare i bambini”. 
Innanzitutto, la fondazione GrandeAle Onlus 
si occuperà di ricerca in materia di leucemia, 
grazie ad un comitato scientifico presieduto 
dal dottor Moncilo Jankovic, responsabile del day hospital 
dell’ospedale San Gerardo di Monza, 
nonché persona eccezionale che ha seguito Alessandro 
lungo tutto il percorso della sua malattia. 
Noi sosterremo un progetto che intende migliorare 
i protocolli proprio in materia di Leucemia linfoblastica di tipo T 
e sviluppare terapie meno aggressive. 
Dall’altra parte la Fondazione si prefigge lo scopo 
di dare supporto al bambino malato e alla sua famiglia. 
Vogliamo finanziare la presenza in ospedale a Monza 
di un’animatrice che accompagni la quotidianità dei bambini 
con diverse attività ludiche e, in secondo luogo,
creare un gruppo di psicologi esperti 
dedicati ai bambini ospedalizzati. 
Abbiamo poi deciso di allargare gli aiuti anche ai bambini indigenti 
o comunque in precarie condizioni economiche o sociali, 
e alle loro famiglie, proprio come ci ha insegnato Alessandro 
con la sua grande generosità. 
Per noi la Fondazione è un’opera davvero importante, 
se riuscissimo a far sorridere anche solo un bambino che soffre, 
in quel sorriso potremmo rivedere
il sorriso del nostro Alessandro».

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