Appello fra le sbarre a Gesù
per Roverto Cobertera
Gesù, lo so tutti ti tirano per la giacchetta e spero che non me ne vorrai se questa volta ti chiedo qualcosa anch’io. Non l’ho mai fatto, a parte quella volta che da bambino  in collegio un prete mi aveva raccontato la storia di un bambino che parlava con te.
Ti ricordi? Si chiamava Marcellino. Era un trovatello. E i frati si erano presi cura di lui.
Un giorno Marcellino aveva trovato nel solaio del convento un grande crocefisso con te inchiodato sopra. Lui iniziò a parlarti. E tu a rispondergli. Marcellino iniziò a portarti un po’ di pane e vino. E per questo in seguito i frati chiamarono il bambino “Marcellino pane e vino”.
La storia finiva bene. Bene per modo di dire. A seconda dei punti di vista. Marcellino si era gravemente ammalato ed era morto. E tu te lo eri portato in Cielo.  Anch’io volevo che la mia storia finisse bene. E, dopo un paio di giorni che avevo ascoltato questo racconto, ero andato in chiesa di nascosto per parlare con te.
Tu come al solito stavi inchiodato in un grosso crocefisso di legno, con la testa inclinata da un lato. Chissà perché non cambi mai posizione. Ti avevo parlato guardandoti negli occhi. Ti avevo domandato cosa dovevo fare nella vita. Se c’era differenza fra morire e vivere. E poi avevo pianto davanti a te, per essere nato già diverso dagli altri bambini. Avevo pianto per i sogni che avevo diversi dagli altri bambini. Avevo pianto per essere nato grande. Avevo pianto per essere nato senza amore intorno a me. Avevo pianto perché immaginavo che un giorno sarei diventato quello che non avrei voluto. Avevo pianto per la vita che non avrei mai avuto. Avevo pianto perché non riuscivo a smettere di piangere. Ti avevo pure confidato che ero solo al mondo. Solo come un cane. E che nessuno mi veniva a trovare in collegio. Ti ricordi? Ti avevo chiesto se mi prestavi tua madre. E se mi facevi giocare con gli angeli perché su questa terra nessuno giocava con me. Ti avevo chiesto se facevi morire anche a me. E se mi portavi in Cielo con te come avevi fatto con Marcellino. Adesso non fare finta di non ricordare. Una volta ero persino salito su una sedia per arrivare fino a te per baciarti la fronte.
E per dirti in un orecchio: “Ti voglio bene”. Un’altra volta ti avevo toccato la corona di spine che avevi in testa. E cercai persino di togliertela. Tu però continuasti a non rispondermi. Non mi parlasti mai, neppure quando, per arruffianarti, ti portai un po’ di pane e un po’ di vino che avevo rubato nella dispensa dei preti. Adesso non è che te lo voglio rinfacciare, ma si potrebbe dire che il primo furto l’ho fatto per te. Eppure tu continuasti a non rispondermi, neppure quella volta quando ti abbracciai.  E quando ti pregai di farmi morire come avevi fatto con Marcellino pane e vino, perché a quell’età non vedevo nessuna differenza fra vivere e morire.
A quel tempo qualche preghiera te la facevo, ma non c’è stato nulla da fare, perché non mi hai mai lo stesso risposto. E mentre quel fortunato di Marcellino pane e vino te lo eri portato in Cielo, a me mi avevi lasciato in questo cazzo di mondo.
Per questo ho smesso di parlarti, perché mi sembrava di parlare con un muro.
Adesso però se farai qualcosa per Roverto, che nel carcere di Padova si sta lasciando morire di fame perché è stato condannato alla pena dell’ergastolo (o, come la chiama Papa Francesco, alla “pena di morte nascosta”) per un delitto che non ha commesso, sono disposto a fare la pace e parlarti di nuovo.
Lo so che gli uomini non danno retta neppure a te, ma tu però puoi fare i miracoli. E allora che aspetti? Fanne uno per Roverto, per dargli una mano a dimostrare la sua innocenza e per salvargli la vita. Se lo farai ti vorrò di nuovo bene. Lo so, è un ricatto, ma me l’hai insegnato tu che in amore tutto è permesso, se ti sei fatto mettere in croce per gli umani. Un sorriso fra le sbarre.

Carmelo Musumeci
Padova, Settembre 2015

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