TORNA L’INCUBO AIDS

di Luca Mantia

In breve tempo l’Aids venne bollato come la “peste del XX secolo” e a ragione: nei soli Stati Uniti i casi accertati nel 1984 furono 22.996 e le morti 12.592. Un’emergenza che fece scattare la psicosi da cui si passò rapidamente all’emarginazione e alla colpevolizzazione di intere fasce di popolazione: neri, stranieri, tossicodipendenti. Per la prima volta nell’era moderna la malattia diventava motivo di conflitto sociale. Da una parte i sani, con le loro ossessioni e i loro pregiudizi, dall’altra gli infermi, guardati con sospetto e lasciati al proprio destino.
Poi venne il sereno, o quasi. Il progresso scientifico ha elaborato terapie in grado di allungare la sopravvivenza e diversi vaccini sono stati testati, alcuni con risultati positivi. Ma una cura ancora non c’è: questo ricordiamocelo bene. Specie oggi che l’Hiv torna a fare paura. Secondo l’ultimo rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità, pubblicato in vista della Giornata Mondiale contro l’Aids che si celebra per l’1 dicembre, nel 2014 i contagi accertati in Europa sono stati più di 142 mila, il picco più elevato dagli anni 80. Uno schiaffo a chi ha pensato di poter sottovalutare il problema, relegandolo alle aree più povere del pianeta (Africa in testa), con quel sottile menefreghismo che caratterizza noi occidentali. I dati recenti sono allarmanti e indicano che la crescita dell’epidemia è guidata dalla parte orientale del Vecchio continente, dove il numero di nuove diagnosi è più che raddoppiato negli ultimi 10 anni. La trasmissione eterosessuale è responsabile dell’aumento in quelle zone e quella attraverso le siringhe fra i tossicodipendenti rimane sostanziale. “Nonostante tutti gli sforzi per combattere l’Hiv, in un anno la Regione europea ha totalizzato più di 142.000 nuove infezioni, il numero più alto che mai. Questo è un problema serio – ha detto Zsuzsanna Jakab, direttore regionale Oms Europa – chiediamo ai Paesi europei di intervenire e arginare l’epidemia di Hiv una volta per tutte”. Lo studio si risolve in una mazzata all’Unione Europea la cui risposta “non è stata abbastanza efficace”.
Allarme rosso anche e soprattutto in Italia. A più di 30 dal paziente 0 il nostro Paese risulta essere quello con il numero più alto di contagi nell’Europa occidentale. Lo scorso anno sono state segnalate 3.608 nuove diagnosi (6,0 nuovi casi di Hiv positività ogni 100.000 residenti) di cui il 60% circa in fase avanzata della malattia. Il dato più preoccupante riguarda però il 25% circa delle persone infette che non sa di esserlo e che potrebbe trasmettere il virus inconsapevolmente. Questo, per gli esperti dell’Associazione Microbiologi Clinici Italiani, è un problema grave anche perché arrivare precocemente alla diagnosi di infezione è di fondamentale importanza per potere accedere quanto prima alla terapia antiretrovirale. Pertanto, dicono i ricercatori, ogni sforzo deve essere fatto per accrescere la sensibilità tra le persone potenzialmente a rischio affinché accedano quanto prima ai testi diagnostici. L’esecuzione del test Hiv e la diagnosi precoce dell’infezione risultano essenziali per poter contrastare la diffusione di un’infezione che, sebbene curabile, è comunque un’infezione cronica.
Le fasce d’età più a rischio sono tutte quelle sessualmente attive e in particolare tra 30 e 39 anni. Se in passato la trasmissione era legata soprattutto alla tossicodipendenza, oggi l’84% dei contagi è dovuto a rapporti occasionali. “In questo scenario, pertanto, è sempre più cruciale la realizzazione di progetti di informazione, di prevenzione, di diagnosi precoce e completa – ha spiegato Pierangelo Clerici, Presidente Amcli – La diffusione e la disponibilità dei test per la diagnosi di infezione rappresentano una priorità unica e i laboratori di Microbiologia Clinica hanno a disposizione test che permettono non solo la diagnosi di infezione, ma anche il follow up accurato delle terapie e la identificazione di ceppi virali resistenti”. E meno male che la tempesta era passata…

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