Il Vangelo letto in famiglia

di fra Vincenzo Ippolito

Il Vangelo letto in famiglia è una riflessione sulla liturgia della Parola domenicale, declinata in chiave coniugale e familiare. Un modo per prepararsi come famiglia e come comunità cristiana a vivere l’incontro con Gesù.

Cristo ci aspetta sulle strade scoscese dei nostri fallimenti, e sui pozzi screpolati delle nostre attese mai compiute

Oggi si vive tutto con superficialità, non si va in profondità nelle cose. Quanti vini artificiali ci intontiscono la mente e ci impediscono di scendere nelle profondità di noi stessi! Quante corazze indossiamo e la società odierna ci impone, senza prendere consapevolezza della nostra creaturalità, del nostro strutturale bisogno di Dio e della sua misericordia.

La terza domenica di Quaresima rappresenta lo spartiacque di questo tempo santo. Mentre, infatti, le precedenti domeniche – definite delle tentazioni la prima e della trasfigurazione la seconda – ci offrono le narrazioni dei medesimi eventi, tratte, a seconda dell’anno liturgico, dai tre Vangeli sinottici, dalla terza domenica, invece, i cammini sono differenti, perché diversi sono gli eventi che le pagine evangeliche ci donano ogni anno.
Per sviluppare un’indole spiccatamente battesimale, nelle tre tappe domenicali prima della Settimana Santa, l’anno liturgico A propone la lettura di brani scelti del Vangelo secondo Giovanni, che sostituiscono il Vangelo secondo Matteo. In questo modo, nel cammino di preparazione alla Pasqua, divengono nostri compagni di viaggio la samaritana prima, il cieco nato poi e Lazzaro per ultimo. I catecumeni che si preparavano al battesimo dovevano apprendere che Gesù, il Cristo, è l’acqua che disseta le arsure del cuore, la luce che illumina il buio della propria storia, la vita che vince la morte. Si tratta di una catechesi che anche le nostre famiglie e comunità sono invitate ad ascoltare perché solo Gesù risorto può rivoluzionare la nostra esistenza e donarci l’amore vero, acqua viva che disseta, luce posta sul candelabro, vita che non conosce tramonto.  

L’incontro con l’altro, senza condizionamenti
Il brano liturgico è tratto dal quarto Vangelo, la cui struttura è diversa rispetto ai Sinottici. Suo autore è il discepolo amato, tradizionalmente identificato con l’apostolo Giovanni. Egli ha messo per iscritto la sua esperienza del Maestro e questo spiega la particolarità del suo scritto, la sua bellezza e la carica spiccatamente interiore che lo caratterizza. La finalità della sua opera  è ben espressa dall’autore che così appunta, verso la fine del suo scritto “Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome” (Gv 20,30-31). Tutto il Vangelo risente di questa impostazione di fondo. Ecco perché, diversamente da Matteo e Luca, non presenta una descrizione dei fatti prima della nascita del Messia e, prima di iniziare direttamente dalla vita pubblica del Nazareno – sensibilità che lo avvicina al Vangelo secondo Marco – presenta, come sua overture, un panorama teologico dell’intera storia della salvezza che ha nel Verbo incarnato il rivelatore del Padre. Dal Prologo (cf. Gv 1,1-18) partono tutti i fili della teologia giovannea, attraverso i vari episodi narrati, vere e proprie catechesi tematiche volte a mostrare l’identità del Cristo ed il suo essere possibilità necessaria perché ogni uomo sperimenti in Lui la vita e la gioia in pienezza.  
La pericope odierna – la proponiamo nella sua forma intera, consigliando di evitare i tagli che, pur se permessi, snaturano la dinamica del testo – presenta l’incontro di Gesù con una donna di Samaria (cf. Gv 4,5-42). Già prima, dopo il prologo (cf. Gv 1,1-18) e i primi eventi che segnano l’inizio del ministero pubblico di Gesù (cf. Gv 1,19-2,25), l’Evangelista aveva narrato il colloquio del Rabbì di Nazaret con Nicodemo, il capo dei Giudeo andato da Lui di notte (cf. Gv 3,1-20). Ora però il cambiamento è rilevante, l’interlocutore del Cristo è una donna, per di più samaritana e l’incontro non è ambientato in Gerusalemme, la città santa, ma in Samaria, notoriamente considerata terra dell’infedeltà e dell’idolatria.
Il primo dato che emerge alla lettura del brano evangelico è la volontà decisa di Gesù di attraversare il paese e di sostare presso il pozzo di Giacobbe. L’Evangelista lo aveva detto poco prima, nei versetti 3-4, non compresi nella nostra pericope [Gesù] lasciò la Giudea e ritornò verso la Galilea. Doveva passare per la Samaria” (Gv 4,3-4). Il dato, più che ad una necessità di ordine geografico, risponde ad una finalità teologica perché per far ritorno in Galilea, si poteva evitare la Samaria e attraversare la Transgiordania. Era la scelta che avrebbe fatto ogni giudeo osservante, visto che l’inimicizia con i samaritani era di vecchia data. Durante la dominazione assira, infatti, con la deportazione di gran parte della popolazione, vennero impiantati in Samaria coloni stranieri che si mescolarono per via di matrimonio con gli ebrei rimasti e questo ebbe conseguenze anche circa la purezza della fede d’Israele, continuamente minacciata dal sincretismo religioso. Anche la proibizione di Geroboamo ai samaritani di andare in pellegrinaggio a Gerusalemme (cf. 1Re 12,25-33) e quella, al tempo di Esdra (cf. Esd 4,1-3), di partecipare alla ricostruzione del tempio aveva reso ancora più profondo il solco di inimicizia e divisione tra i due popoli. Lo scisma venne sanzionato in modo definitivo con la costruzione di un luogo di culto sul monte Garizim, che divenne rivale del tempio di Gerusalemme.
Gesù conosce bene le situazioni storiche della sua terra, ma questo non gli impedisce di valicarne i confini per donare la salvezza anche a coloro che, per la mentalità comune, non meritano l’elezione e non partecipano ai beni della promessa. Il Nazareno sente in sé la necessità di uscire, di andare in Samaria, di superare le divisioni, abbattere gli steccati ideologici, razziali e sociali per costruire la grande famiglia dei figli di Dio. Grazie alla salvezza che Egli porta “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna – scriverà Paolo – poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù.” (Gal 3,28). Il Messia realizza così il disegno universale del Padre per il quale tutti gli uomini sono figli. Ecco perché l’autore della Lettera agli Ebrei potrà affermare “voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo” (Eb 2,13). Essere vicini, familiari di Dio, amici suoi è questo il sogno di Dio sull’umanità.
Non c’è nulla che possa condizionare, limitare o arrestare la potenza della misericordia del cuore di Gesù, il suo insopprimibile desiderio di comunicarsi come sorgente d’amore redentivo, la sua ferrea volontà di far giungere la salvezza che risana fino ai confini della terra. Se Luca, l’evangelista della misericordia, ci dona i tratti più teneri del Signore cha sta con i pubblicani e le prostitute (cf. Lc 15,1) perché “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi” (Lc 5,30-31), Giovanni non è da meno, presentandoci il Signore che attraversa la Samaria. Per Lui non solo le distinzioni tra uomo e donna non contano quando la posta in gioco è la redenzione, ma anche le inimicizie e gli odi non possono prevalere e non devono mai vincere. Gesù non ha paura dell’altro, del diverso, dello straniero, del peccatore perché dinanzi ai suoi occhi tutti siamo solo creature mendicanti e bisognose d’amore. Non è il colore della pelle, né la lingua che determina la nostra accoglienza o meno, neppure la nostra fede e le tradizioni che scandiscono la vita possono chiuderci nel nostro piccolo mondo, paghi del bene che non riusciamo neppure a goderci per via dell’egoismo che dentro ci consuma. Cristo ci insegna a non vivere mai i rapporti con diffidenza, a non essere prevenuti né ad avere giudizio facili di condanna e di esclusione. Se gli altri sono diversi da noi, anche noi siamo diversi da loro. La diversità non è opposizione, ma possibilità di reciprocità e di incontro costruttivo. Non possiamo vivere chiusi in limiti prefissati.
Gesù valica i confini e distrugge non le differenze, ma la diffidenza e l’odio che la differenza ha causato, per la durezza del cuore dell’uomo. Valicare i confini spesso può essere pericoloso nella relazione perché l’altro/a potrebbe sentirsi violentato nella sua interiorità, avvertendo come pretesa il desiderio di comunione che l’amore genera. Entrare nella terra santa dell’altro/a richiede attenzione e delicatezza, ci si entra non come padroni, ma ospiti, mai per comandare, ma con la volontà di servire il bene dell’altro. In caso contrario si genera la diffidenza e la paura. Tutti abbiamo fatto esperienze di fiducia mal posta o di speranze svanite, ma questo non può e né deve portarci alla chiusura. L’altro è un dono, al pari della parola di Dio – è il cuore del messaggio di papa Francesco per la Quaresima di quest’anno – ma siamo invitati a vivere l’avventura dell’incontro, senza lasciarci influenzare da nulla che non siano amore, carità, accoglienza, perdono e volontà di ricominciare. È proprio questo che fa Gesù, entrando in Samaria.
Siamo chiamati a non chiudere la salvezza di Cristo nelle nostre sacrestie, a limitare la portata immensa dell’amore alle nostre realtà familiari e comunitarie. Siamo abituati ad avere e cercare distinzioni nette, categorie precise per sentirci al sicuro. Per Dio, invece, non è così. I confini non esistono, neppure tra odio e amore, perché l’amore vero è capace di abitare l’infedeltà e di stare nella prova sapendo che non potrà mai essere diverso da ciò che è, dono incondizionato e totale di sé per il bene dell’altro. Gesù avverte in sé l’amore come necessità, sente che l’amore trasborda dal suo cuore e tale flusso di bene non può frenarlo perché gratuitamente lo ha ricevuto dal Padre e gratuitamente lo dona. In questo Egli è il Figlio, nel testimoniare il primato del Padre e nel rivelare l’amore infinito che lo ha portato a donarlo a noi come Salvatore e Redentore.
Perché abbiamo così paura della diversità e cerchiamo l’omologazione dell’altro? La complementarietà e la reciprocità sono dei valori da perseguire nella relazione di coppia oppure qualcuno deve sempre cedere per quieto vivere? Mi è mai capitato di dover vincere barriere e condizionamenti nell’incontro con l’altro/a? Vivo la reciprocità del dono con la persona che mi è accanto e divento io dono, nello scambio che genera la gioia e fa crescere l’umanità?
La forza dell’attesa e del dialogo
L’Evangelista ci dona un’immagine tutta umana di Gesù, nelle prime battute del Vangelo di oggi. Il Maestro, stanco del viaggio, si siede accanto al pozzo di Giacobbe. Per Lui la stanchezza non è un limite, non va nascosta, nel desiderio di farsi vedere sempre all’altezza di ogni situazione, come capita a noi. Per Gesù la stanchezza e la sete diviene occasione di relazione, volontà di richiesta umile. Ogni situazione della nostra vita può divenire occasione di bene, ma tutto dipende dalla volontà nostra, dalla capacità di affrontarle con coraggio. Se riuscissimo anche noi a far divenire la stanchezza e i limiti che ogni giorno sperimentiamo possibilità per chiedere alla persona che ci è accanto il refrigerio del suo affetto, la pace della sua compagnia, la serenità della sua attenzione. Quante liti potrebbero evitarsi se avessimo l’umiltà di chiedere, la pazienza di attendere, la costanza di aspettare il momento opportuno! I gesti di Gesù sono dei più semplici, eppure risultano incisivi, come vengono presentati dall’Evangelista, perché vissuti con quella naturalezza che nasce dall’amore. Il Maestro non ha paura della sua stanchezza, come non ha paura di attendere accanto a quel pozzo la donna che di certo verrà per attingervi acqua.
Gesù sta aspettando anche noi, come un giorno la donna di Samaria. Ci precede nel luogo dove noi ci dirigiamo e desidera far breccia nel nostro cuore, iniziando un dialogo pacato e sereno. Non accadde forse così anche con i due di Emmaus? Come un giorno venne nell’umiltà per arricchirci della povertà assunta, ma abitata dalla sua grazia, così sempre viene a noi in apparenza umile, come un mendico, un bisognoso, un viandante. Sì, Gesù aspetta me. È seduto in un crocicchio del mio mondo interiore e guarda all’orizzonte come il padre misericordioso il suo figlio perché vuol avere bisogno di me. Sì, il Creatore del mondo, il Signore dell’universo sceglie di avere bisogno di me, dell’amore del mio povero cuore e sembra non darsi pace, come il pastore che lascia le novantanove pecore nel deserto e va in cerca di quell’unica che si è perduta. Gesù attende me! Sono io la causa della sua stanchezza perché per incontrarmi ha dovuto fare un lungo cammino ed ora seduto mi aspetta.
Qual è il mio pozzo di Giacobbe? Dove il Signore mi attende? È forse accaduto che l’ho incontrato e non mi sono curato di Lui oppure forse ho incrociato il suo sguardo e non mi sono lasciato leggere nell’intimo dai suoi occhi, capaci di scrutare ogni uomo? Nella relazione di coppia ho paura di essere debole, di chiedere aiuto, di farmi vedere bisognoso?
Per incontrare il Signore ogni ora è buona, la notte vale quanto il giorno, se Nicodemo venne dal Rabbì alla ricerca della luce, nella notte. Per la samaritana il tempo dell’incontro è l’ora sesta, il mezzogiorno, come per Abramo che, alle querce di Mamre, “sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno” (Gen 18,1). Appare inusuale che una donna vada ad attingere acqua a quell’ora, ma ogni tempo è opportuno quando si tratta di incontrare Dio. Egli solo è vigile perché “non prende sonno il pastore di Israele” (Sal 120,4), Egli veglia “come un’aquila la sua nidiata” (Dt 32,11). Noi possiamo credere che le situazioni della nostra vita siano frutto del caso o di coincidenze fortuite. Noi ci muoviamo nella volontà di Dio, nel suo progetto di amore. Se Egli nutre gli uccelli del cielo e veste i gigli del campo, non avrà forse pensiero per ciascuno di noi? Questo perché il motore del suo agire è l’amore. Gesù, prima ancora di incontrare quella donna, la ama di un tenero affetto, il suo intimo freme di compassione e la conosce in profondità. Conoscenza d’amore, comprensione che nasce dall’amore contenuto in sé e non ancora manifestato è quello che Cristo vive per noi.
Qual è la mia ora sesta, il mio tempo opportuno e necessario per incontrare il Signore? Mi sento amato da Dio, da lui pensato e desiderato per il cammino della mia gioia? È giunto il momento di iniziare a fare sul serio con Lui oppure voglio ancora cambiare strada quando lo incontro? Cristo mi aspetta per donarsi tutto a me ed essere la mia salvezza, dovrà attendere ancora tanto?
Mostrarsi bisognoso per svelare all’altro il suo bisogno
“Giunse una donna samaritana ad attingere acqua” (v. 7), scrive l’Evangelista. La motivazione della sua venuta è la necessità dell’acqua e proprio questa diviene l’occasione del dialogo che Cristo ricerca. Il suo “Dammi da bere” non è tanto una richiesta umile per ristorare la sua stanchezza, quanto la strada perché la donna divenga consapevole del suo bisogno. È questo che fa Dio con l’uomo sempre. Perché la sua creatura divenga cosciente di quanto Dio sia necessario e dell’opportunità bella che è la sua presenza nell’esistenza umana, il Verbo si fece carne. È fondamentale che dal cuore affiori il desiderio di Dio, la necessità del suo amore, la bellezza della sua visita, la nostalgia del suo sguardo. L’uomo, come la samaritana, ha smarito il gusto di Dio, vive una vita disordinata – anche la donna è disordinata nelle sue abitudini, chi sarebbe andato ad attingere acqua a mezzogiorno ai tempi di Gesù? – perché senza il Signore manca il sorriso della gioia, l’armonia della letizia, la felicità piena del cuore. Senza Cristo regna sovrana la solitudine e la morte fa da padrona. Spesso l’uomo vive alienato dai suoi veri bisogni, bersagliato da ciò che i media fanno apparire come necessario. Oggi si vive tutto con superficialità, non si va in profondità nelle cose. L’uomo morde e fugge, senza sapere cosa morde e dove fugge. È sempre stato così, perché ogni epoca ha le sue porte di sicurezza, le vie di fuga che l’uomo si crea per non guardare in faccia la realtà. Gesù vuole che il nostro cammino sia scandito dall’autenticità, che attraversiamo la foresta dei falsi desideri e dei vuoti bisogni per riappropriarci del nostro cuore la cui soddisfazione viene sempre e solo da Dio. Quanti vini artificiali ci intontiscono la mente e ci impediscono di scendere nelle profondità di noi stessi! Quante corazze indossiamo e la società odierna ci impone, senza prendere consapevolezza della nostra creaturalità, del nostro strutturale bisogno di Dio e della sua misericordia.
Tra i tanti desideri che abitano il mio cuore, quali sono quelli veri, quali mi conducono a riappropriarmi di ciò che è veramente mio? Quale la mia acqua che ricerco? Di cosa sono assetato/a nella mia giornata? A quel pozzo attingo ciò di cui credo di aver bisogno sul serio? La persona che amo mi dona l’acqua dell’amore che il Signore mette nel suo cuore per me?
La pedagogia di Gesù è quella dell’umiltà, far finta di aver bisogno perché l’uomo non provi vergogna nel rendersi conto che ad avere bisogno è lui che riceve la richiesta da parte di Dio. È l’umiltà che costruisce il dialogo e costituisce il terreno sul quale non ci si sente giudicati, ma si ha il coraggio e la forza di manifestarsi per quello che si è, senza timore, anzi nella certezza di essere capiti, amati ed accolti. Cristo entra nella situazione dell’uomo e dall’interno legge la sua storia e questo dovremmo fare anche noi, se vogliamo aiutarci e stare accanto in ogni momento della vita a chi amiamo. Gesù ha sete sì, ma della sete della samaritana, dice Agostino di Ippona, commentando il nostro brano. Dio ha sete di noi, del nostro desiderio di Lui. Non gli interessano le strade scoscese dei nostri fallimenti, i pozzi screpolati delle nostre ricerche finite male. A Lui stiamo a cuore noi così come compariamo dinanzi ai suoi occhi misericordiosi, ricerca noi e basta, con le mani vuote di chi sa di non avere diritti da accampare, ma solo povertà da offrire.
È consolante sapere che Dio ci desidera dal profondo del suo essere Dio, vuole il nostro bene e non ci chiede nulla, se non la consapevolezza di aver bisogno di Lui, di non poter vivere senza il suo amore. Gesù mostra il nostro strutturale bisogno di Lui. Quale abisso tra Dio e l’uomo!  Questi ha bisogno del suo Signore e vive come se questo legame vitale non ci fosse, non lo mette in conto, non si cura di nutrirlo e viverlo. Dio, invece, brucia dal desiderio di noi, del nostro bene, di donarsi come la sorgente che disseta, luce che fuga la notte, vita che sbaraglia la morte del cuore.
Dio ha sete di me, della mia vera gioia, della nostra famiglia che vive nella precarietà, della fede dei nostri figli, chiusi nel dubbio se mettere il Vangelo nella bisaccia di una vita vita che vogliono vivere senza condizionamenti, perché anche la fede suona per loro un condizionamento. Dio ha sete non della nostra perfezione, ma del semplice desiderio che abbiamo di Lui, non delle nostre grandi opere, ma delle semplici gioie di una vita che si lascia abitare dal suo amore. Dio ha sede della nostra consegna nelle sue mani, del nostro abbandono alla sua volontà. Tutta la vita di Gesù è percorsa da questo desiderio, dal pozzo di Sicar sino alla croce è consumato da questa arsura, la sua gola è come terra deserta, arida, fin sul patibolo, dove dice, mendicando “Ho sete” (Gv 19,28). La sete che brucia Gesù è il desiderio di essere ricambiato nell’amore dall’uomo, non alla pari – come può l’uomo eguagliare Dio nell’amore? Lo può fare solo se gli viene comunicato lo Spirito amore e anche allora conterrà nel vaso fragile della sua vita la potenza dell’eterno ed infinito Amore – perché chi ama desidera essere riamato, non per averne il tornaconto, ma perché l’amato viva d’amore, nel ricevere gratuitamente l’oblatività di chi ha gioia nel donarsi. Come Gesù continua a soffrire in ogni uomo che sente dolore ed è ingiustamente perseguitato ed umiliato – è la nota affermazione contenuta nei Pensieri di Pascal – così Cristo continua ad aver sete fino alla fine del mondo, sete di me, del mio amore. Ma cosa riceve in cambio? Ancora oggi l’aceto della nostra disperazione, il fiele della nostra dimenticanza, l’amarezza del non volerlo compagno ed amico, la freddezza del non accoglierlo come Maestro e Signore.
Vorrei, mio Signore, dissetare la sete che tu hai di me. Mi sembra però superbia il semplice pensarlo. Come tu disseti me, quando mi inviti a bere dalla piaga del tuo costato, così ora vorrei che tu nel mio povero cuore possa trovare un rivolo di amore, capace di placare il tuo cuore in angoscia. Ma se lo penso e sento forte in me questo desiderio ed il solo provarlo, mi fa tremare, il tuo volerti dissetare in me, mi rende sereno e placa le tempeste del mio pensare. Vuoi che tra noi ci sia la gara a chi desidera l’altro di più. L’abisso tra noi è immenso, eppure il tuo amore ti porta a volere che in me il desiderio di te uguagli il tuo di me.
Io so, mio Gesù, che solo la tua acqua voglio fortissimamente, solo il tuo amore ricerco con tutte le fibre del mio essere. Nella sorgente che sgorga cristallina dal tuo costato io sono rigenerato, dal sangue che fuoriesce dalle tue piaghe sono sanato. È forse follia la mia? Volesse il Padre che sia follia d’amore quello che sento! Uniscimi a te, o Gesù e fa che dal mio cuore sgorghi la tua acqua zampilli, lo Spirito-amore che tu vi riversi perché tu vuoi avere bisogno proprio di una creatura inutile come me perché appaia che tutta la potenza misericordiosa è tua, sola tua, pur passando attraverso di me. La mia vita – per il tuo puro dono d’amore – trabocca della tua grazia e non c’è gioia più grande di quella che nasce dal divenirne cosciente!
Quaresima in famigliaL’acqua dello Spirito, il dono dei doni
La donna non comprende la richiesta di Gesù. È stupita che un giudeo le dia confidenza e legge solo superficialmente la provocazione del Maestro che vuol portarla su un livello superiore. Per questo le dice “Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva” (v. 10). L’acqua che Gesù promette e che donerà dal suo cuore squarciato è lo Spirito-amore. È l’amore l’acqua viva e zampillante che siamo chiamati ad attingere dal cuore di Cristo, perché solo Lui ne è il dispensatore, solo Lui è il Figlio amato da sempre e per sempre dal Padre. Nessuno conosce l’amore come e più di Lui. Chi accoglie dalla croce di Gesù lo Spirito-amore diviene a sua volta sorgente di tenerezza da donare, fonte di misericordia da effondere, seminatore di accoglienza da offrire.
A Gesù rivolgiamo il nostro “Signore, dammi di quest’acqua”. È questo il segreto perché le nostre famiglie vivano e donino l’amore di Cristo, l’unica acqua che sazia le arsure di ogni cuore.

Commenti