Stare insieme nei reparti come quello di Charlie
di Chiara Gatti | 10 luglio 2017 
La mia personale esperienza di madre che ha vissuto una vicenda simile, fortunatamente con esiti meno drammatici, in una neuropsichiatria infantile


Sulla vicenda del piccolo Charlie, ho pensato a lungo se aggiungere al coro attuale anche la mia voce, certo non paragonabile a quella di famosi medici, genetisti, teologi e maestri di etica del nostro tempo, ma credo che il mio contributo possa inserirsi serenamente sulla scia di quelli di Gilberto Borghi e soprattutto di Paola Springhetti.
A prescindere dalle mie personali convinzioni sull'idea di fine-vita che, come cattolica, non posso accettare nella forma che la decisione presa dai medici del Great Ormond Street Hospital di Londra ha decretato, vorrei mettere in luce un aspetto a mio avviso fondamentale. Come in parte ha già ben evidenziato appunto Paola Springhetti, sulla possibile solitudine vissuta dalla famiglia del piccolo Charlie, è evidente come questa coppia di giovani genitori si sia trovata alle prese con la prova più grande che, credo, una coppia possa affrontare: quella di una malattia genetica rara del proprio figlio, in questo caso altamente degenerativa e considerata inguaribile dai medici ai quali si sono affidati.
Mi pare giusto rivelare, anche se con un certo pudore, che queste parole nascono dalla mia personale esperienza di madre che ha vissuto una vicenda simile, fortunamente con esiti meno drammatici, ma comunque con un bagaglio grande di conoscenza di quale siano le dinamiche di un reparto di neuropsichiatria infantile (il tipo di reparto dove patologie come quella di Charlie vengono curate), le casistiche di esami clinici a cui i bambini malati di questo tipo o affini vengono sottoposti, e soprattutto le dimensioni interiori e relazionali che in certi luoghi di disperazione si vivono e si intrecciano. Certi reparti sono limbi, dove la vita pare essersi fermata, grandi navi dove gli altri passeggeri sono genitori come te che hanno drammi tutti simili, pur in grandi diversità di patologia e di gradiente di gravità....
Eppure di patologie invalidanti si parla, di patologie che cambiano per sempre la tua vita di genitore e soprattutto quella di tuo figlio per il quale mai avresti pensato prima un percorso simile. E qui, in queste corsie oserei dire stralunate, dove tutti si diventa fratelli in poche ore dall'accesso al ricovero, sia che si rimanga chiusi nel proprio dolore, o che si diventi logorroici nel raccontare a tutti la propria vicenda, o meglio quella del proprio bambino, ci si ritrova insieme a parlare solo di malattie con nomi assurdi pur senza essere medici specialisti, si parla di esami dai nomi mai sentiti prima come fossero aspirine per il raffreddore, si scambia il giorno per la notte e tutto in quel luogo (odori, colori, sapori...) assume toni che non dimenticherai più per tutta la vita e che ti legheranno al medico (o all'equipe) che ha in cura tuo figlio, o agli altri genitori che sono ricoverati in quel momento, come mai avresti creduto possibile quando vivevi "fuori"...Fuori, ti rendi conto in un attimo, ti trovavi in spazi dove neanche si sospetta cosa si possa provare là dentro dove tutto cambia, in quello che si prova nel proprio cuore e in quello che si dice fuori, nei toni di voce, nei filtri delle conversazioni che cadono magicamente perché si ha bisogno di aprirsi come aprire una finestra perché entri aria pura (e anche questa, parrà strano, è un' esperienza per nulla scontata e non sempre possibile in quelle corsie)...
Mi fermo un attimo, rileggo le mie ultime parole, mi accorgo che ho già perso il tono un po' più formale che avevo deciso di tenere e il mio personale filtro emotivo si è già impastato di quel clima evocato, come se nuovamente me ne trovassi il sapore in bocca... Eppure queste parole non sono lontane dal discorso forse più teorico, ma probabilmente spiegato meglio da quello che ho appena detto, sul concetto di comunità reale che si crea in quei reparti, necessaria a far rimanere in vita non solo i piccoli malati, ma certamente anche i loro genitori. Una comunità che include un'alleanza stretta coi propri medici, che diventano interlocutori basilari, che sfilano nei corridoi per recarsi da un ambulatorio all'altro e portano notizie, che non sai mai se in quel momento siano per te o di che natura siano. Eppure sono... e sono vicini, appunto altro equipaggio di quella nave che, come metafora poetica, usavo prima. Non deus ex machina della situazione, come un po' quei medici inglesi mi appaiono ora, non capaci di risolvere tutto, ma sicuramente protesi, vicini alle famiglie, competenti e maestri nel prendersi cura, se non sempre nel poter guarire con quello che scientificamente hanno a loro disposizione.
E qui ho pensato a lungo all'idea di comunità che abbiamo oggi e, mai come in questo caso, mi sono ritrovata davanti ad un termine talmente abusato da essere totalmente svuotato del suo significato pieno e bellissimo. Recuperandone quindi almeno il valore etimologico, questa parola comunità (dal latino cum=insieme e munus=compito, dovere) ha una prima stesura semantica: si sta insieme per un compito. E da qui certo, in una diretta applicazione di senso alla celebre vicenda inglese, viene da chiedersi: se comunità c'è stata attorno ai genitori di Charlie (intesa come profondo contatto tra medici-famiglia del paziente- altre famiglie di bimbi ricoverati...) ha avuto solo lo scopo di stare insieme per il compito di guarire Charlie, e di fargli raggiungere i "parametri" di recupero per riportarlo alla normalità media? Ma c'è un altro valore etimologico che possiamo dare a questa parola, ben più ricco e nutriente: "comunità intesa come luogo in cui lo stare insieme è il compito stesso" (G. Salonia)! In questo contesto di comunità a Charlie non sarebbe stata chiesta la "performance" di una guarigione obbligatoria, mi si passi il termine crudo, e certamente sarebbero stati ammessi trasferimenti in altri luoghi a provare ogni tipo di cura sperimentale, anche se non chiaramente garantita come esito di successo.
Stare insieme vicino a Charlie e ai suoi genitori era il compito, stare insieme a loro come, con commozione, ho sentito in una intervista rilasciata al TG1 qualche sera fa, ha saputo fare la famiglia di Mele (Emanuele Campostrini, che vive a Massarosa-Lucca e ha già 8 anni, pur avendo la stessa patologia di Charlie, intendendo per stessa tipologia l'alterazione dello stesso gene). Beh, la mamma e il papà di Mele, che lo fanno vivere con grande normalità disteso e con tutti i suoi presidi necessari alla vita, ma pur al centro di una grande cucina in cui vivono con altri due fratelli, telefonano quotidianamente ai genitori di Charlie, parlano con loro e danno loro coraggio... Questo intendo per familiarità di corsia tra casi simili di dolori anche con esiti diversi, questo intendevo parlando di diventare spalla gli uni per gli altri al di là di ogni ragionamento troppo razionale e autoreferenziale. Questo, certo, non escludendo anche la grande solidarietà di una immensa comunità social che ha fatto petizioni, raccolto grandi quantità di denaro per finanziare nuovi tentativi di cura, ha pregato e ha mostrato tanta vicinanza! Eppure, per una volta, anche per esperienza personale, mi si lasci esaltare la bellezza di un contatto vero "comunitario", di un ritrovarsi insieme davvero alle macchinette del caffè spesso con qualche lacrima che compare e non si può reprimere, del tocco di una mano sulla spalla e di un abbraccio vero nei momenti più belli di speranza e più duri di disperazione, di un dialogo con il proprio medico che ha uno sguardo franco negli occhi, una parola ferma e un sorriso che non è finto....
Io questa comunità l'ho avuta e l'ho incontrata spesso, in tanti volti anche spesso non immediati ma solo dopo riconoscibili, e ne sono profondamente grata. Io questa comunità, oltre alla grande speranza che Charlie possa stare meglio, la auguro ai suoi genitori e a lui quando sarà più grande, qualunque strada prenda la loro strada. Stare insieme è il primo e più vero compito!


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