Perseguitati per la loro fede: aumentano i richiedenti asilo dalla Cina


Era “un lunedì afoso di luglio del 2015” quando, allo sportello legale dell’associazione A Buon Diritto Onlus, si presentano per la prima volta due giovani donne cinesi a chiedere aiuto. Data la presenza insolita, non c’erano operatori disponibili che parlassero la loro lingua per cui le ragazze decidono di arrangiarsi con l’app “google traduttore”, che fa nascere più di un equivoco (a partire dalla parola “asylum”, che veniva tradotta con “manicomio”). Alla fine, però, si riesce a venire a capo della faccenda: le giovani, infatti, erano fuggite dal loro paese e volevano chiedere “asilo” per motivi religiosi. “Quello fu l’inizio della nostra attività con i richiedenti asilo cinesi” spiega l’associazione in un nuovo report sul tema, uscito a fine luglio. Un fenomeno alquanto nuovo, dato che in genere i cinesi emigrano principalmente per cercare lavoro e non per richiedere protezione. Eppure, il Global Trends dell’UNHCR parla di una cifra che in soli cinque anni si sarebbe addirittura quintuplicata: 57.705 richiedenti asilo cinesi nel 2015, contro i 10.617 del 2010. E, nello stesso periodo, è aumentato anche il numero di cinesi a cui è stato riconosciuto lo status di rifugiato: dai 190.369 del 2011 ai 212.911 dell’anno scorso a livello mondiale.
Anche l’Italia partecipa a questo trend di crescita: i dati del Governo italiano del 2016 riportano infatti un aumento delle domande del 143% rispetto al 2015 (356 nel 2015 contro le 871 del 2016) e del 326% tra il 2014 e il 2015. “I cinesi sono una delle nazionalità che ha registrato l’incremento percentuale più significativo tra i richiedenti asilo – si legge – nonostante in numeri assoluti siano ben distanti ad esempio da nigeriani e pachistani, due tra le nazionalità col più alto numero di domande presentate”. Ma a cosa si deve quest’incremento? Secondo le testimonianze raccolte dall’associazione A Buon Diritto, che ha cominciato a studiare il fenomeno a partire dalle città di Roma e Milano, coloro che si sono presentati a chiedere aiuto hanno dichiarato tutti di essere stati perseguitati in Cina per motivi di culto.
Negli ultimi anni, infatti, la Cina è andata incontro a una vera e propria esplosione di fede, nonostante i decenni di campagne anti-religiose che hanno seguito la presa del potere da parte del Partito Comunista nel 1949. Si tratta principalmente di fede cristiano-evangelica che ha portato alla rinascita nascita di un grande numero di chiese non autorizzate né registrate, le quali hanno contribuito a far salire il numero dei fedeli da circa 1 milione agli almeno 60 milioni di oggi. La loro vita, però, non è sempre facile. Sebbene la Costituzione Cinese, all’art. 36, preveda il libero esercizio del culto, questo dettame non sembra infatti trovare sempre una reale applicazione, anche a causa della clausola generale dell’articolo stesso, nella quale si vieta di praticare quei culti che possono minare l’ordine pubblico, danneggiare la salute dei cittadini, interferire con il sistema educativo statale. “Le cinque religioni più praticate in Cina sono il buddismo, il taoismo, l’islam, il cattolicesimo e il protestantesimo – spiega A Buon Diritto – tutti gli altri culti sono scarsamente tollerati, ed è stata stilata da parte delle autorità una lista di quattordici movimenti definiti malvagi e illegali”.
In questo caso, nel mirino del governo cinese ci sono le cosiddette “chiese domestiche”, in genere stanze di case private adibite a sale di culto, in cui piccoli gruppi si riuniscono per le celebrazioni. Non si tratta di chiese propriamente “clandestine”, ma spesso i fedeli e gli officianti prendono le loro precauzioni, evitando di assembrarsi in grandi numeri e preferendo la discrezione. La repressione infatti è sempre dietro l’angolo(basti pensare alla distruzione di migliaia di croci e chiese nel 2014 nella provincia di Zhejiang), anche se non in tutte le zone del paese con la stessa intensità. L’apparato statale preferirebbe infatti che i fedeli cristiani aderissero piuttosto al Three-Self Patriotic Movement, la Chiesa protestante di Stato riconosciuta da Pechino: qui gli incontri sono fortemente monitorati, con tanto di poliziotti a presidiare le celebrazioni e inni di lode per il Partito cantati prima di quelli per lodare Dio. Non sorprende che molti preferiscano aderire ad altre comunità cristiane, con tutti i rischi che ne conseguono. “L’agente persecutorio è rappresentato dalla polizia – si legge ancora nel report di A Buon diritto – che agirebbe per limitare l’azione di propaganda considerata come la causa di episodi di protesta o addirittura di insurrezione nei confronti del governo cinese”.
Nelle testimonianze raccolte dall’associazione si parla di catture durante la preghiera, minacce, aggressioni e multe da parte della polizia cinese. A volte, i richiedenti asilo riferiscono di vere e proprie torture. Alla fine, molti decidono di fuggire, e la fuga comporta la recisione di tutti i rapporti familiari, anche per evitare coinvolgimenti e ritorsioni. L’organizzazione del viaggio, infatti, avviene in totale autonomia e il visto e il passaporto sono rilasciati attraverso il pagamento oneroso di cifre che possono raggiungere anche i diecimila euro. Un dato che viene sottolineato è la provenienza di queste persone in fuga: non più solo dalle tre regioni della Costa meridionale del paese (Zhejiang, Fujan e Guandong) da cui provengono storicamente gli immigrati cinesi, ma anche da città come Pechino, Canton e Shanghai. Spesso al loro arrivo in Italia non conoscono l’esistenza della protezione internazionale che, come abbiamo visto dai dati iniziali, in ogni caso viene loro concessa molto raramente. Ai colloqui con le Commissioni Territoriali, infatti, le dichiarazioni dei richiedenti asilo cinesi vengono spesso percepite come vaghe e contradditorie, oltre al fatto che spesso, sempre a parere della Commissione territoriale, vi sarebbe la scarsa probabilità di incorrere in atti di violenza e danno grave se queste persone dovessero far ritorno in Cina.
Da qui, la necessità, secondo l’associazione A Buon Diritto, di un maggiore monitoraggio del fenomeno: dalle traduzioni dei colloqui, spesso troppo stringate e approssimative, alla mancata presa in considerazione della protezione sussidiaria, “nonostante in Cina sia prevista e applicata in via del tutto arbitraria la pena di morte, e dopo che le torture e i trattamenti inumani e degradanti, previsti in caso di detenzione e/o assegnazione a campi di rieducazione, siano talvolta stati inflitti anche agli arrestati per motivi religiosi”. Il lavoro, dunque, è solo all’inizio.

Anna Toro

Laureata in filosofia e giornalista professionista dal 2008, divide attualmente le sue attività giornalistiche tra Unimondo (con cui collabora dal 2012) e la redazione di Osservatorio Iraq, dove si occupa di Afghanistan, Golfo, musica e Med Generation. In passato ha lavorato per diverse testate locali nella sua Sardegna, occupandosi di cronaca, con una pausa di un anno a Londra dove ha conseguito un diploma postlaurea, sempre in giornalismo. Nel 2010 si trasferisce definitivamente a Roma, città che adora, pur col suo caos e le sue contraddizioni. Proprio dalla Capitale trae la maggior parte degli spunti per i suoi articoli su Unimondo, principalmente su tematiche sociali, ambientali e di genere. 

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