Ha ancora senso far penitenza con strumenti come il cilicio?

Pellicole come Il nome della rosa, di J.J. Annaud, ci hanno inculcato l'idea che alcuni strumenti appartengano a una lontana mitologia medievale, forse soprattutto letteraria. Ogni volta che invece si scopre che un santo dei nostri giorni usava praticare simili mortificazioni ci si ripropone intatta la domanda: «Non è masochismo? Come si collega l'ansia di espiazione con la buona notizia del Vangelo?»

Di tanto in tanto si viene ad appurare, mano a mano che le carte di questo o quel santo vengono scoperte e lette e pubblicate, che lo stesso (o la stessa) faceva uso di penitenze corporali quali il cilicio. La cosa cade quasi a latere, senza destare particolari attenzioni, se il santo visse in un tempo lontano: «Si sa – pensiamo spesso noi quando non sappiamo le cose –, in altre epoche era naturale ciò che ora non si usa più». E difficilmente sapremmo argomentare la dismissione di un’usanza piuttosto che di un’altra, se non mediante quel tautologico riaffermare che – appunto – non si usa più. Vi sta sotteso un pregiudizio positivistico e storicistico, che sottintende come chiaramente sia un bene che “le usanze di un tempo” non si usino più – non foss’altro che perché furono un tempo.
La locuzione “è lo spirito del Concilio” suona poi come una ricorrente smaltatura che alla suddetta tautologia viene volentieri apposta in ambienti ecclesiali dei nostri giorni: non ci si flagella, oggidì, certo non più – è lo spirito del Concilio!

E mi ricordo senz’altro il pensoso maestro Elmar Salmann, che una volta ciondolò il capo acuto sopra la cattedra bofonchiando con amabile parlata teutonica:
Cuarant’anni fa, se incontravamo l’Apate nel korridoio, ci inginokkiavàmo finché non fosse passato… adesso gli ticiamo “Ciao!”. Non foglio dire che fosse meglio allora… o che sia meglio adesso… dico solo: riflettiamo! Cuando sono entrato in monastero ci flacellavamo… adesso ognuno ha la sua macchina!

Quelli che usano il cilicio… oggi

Dato che padre Salmann è tutto fuorché un uomo nostalgico, si capisce ancora meglio quanto possa sorprenderci la scoperta del cilicio di Paolo VI. Ma come! Il Papa della “Gaudete in Domino” – un’enciclica sulla gioia! – usava simili gadget medievali? Lo capiamo meglio rileggendo un’importante catechesi tenuta da Papa Montini per le Ceneri del 1966: attenzione, il febbraio del ’66 è ancora in piena scia di euforia conciliare e viene percepito lontanissimo dal 1968, quando la divaricazione tra il Maggio e la Humanæ vitæ avrebbe sancito la fine della gloria montiniana! Diceva dunque Paolo VI ai fedeli, quel 23 febbraio:
La Chiesa maestra non teme d’offrire ai fedeli suoi alunni lezioni tremende, come questa: quella della cenere, quella cioè della fine d’ogni cosa creata, quella della caducità fatale di quanto noi siamo e di quanto la nostra vita ama ed ammira, quella della sorte tragica e inesorabile, che soggiace, come un’insidia sempre in agguato, ad ogni più piena manifestazione della vita, l’insidia della morte che sta per divorare quanto abbiamo di più bello e di più prezioso; ed ecco la cenere, spenta e arida e misera conclusione di tutto il mondo della nostra esperienza vitale nel tempo, generatore e distruttore. […] Eppure questo non è un rito macabro e disperato. Si pensa al medioevo, quando all’alfabeto del pensiero molto servivano le cose sensibili, e quando la vita spirituale era considerata superiore ad ogni altra forma della nostra complessa esistenza. Ma l’origine di questo linguaggio simbolico risale più indietro, quando non a tutti i fedeli, come ora avviene, s’imponeva sul capo la cenere quaresimale, ma soltanto ai penitenti qualificati, ammessi così ad espiare pubblicamente le loro colpe dinanzi alla comunità dei fedeli e da essa in tal modo parzialmente segregati. Risale anzi ancora più indietro, ai primi tempi del cristianesimo, eredi essi pure d’una tradizione biblica, che associa appunto l’aspersione della cenere alla professione della penitenza, e vi aggiunge l’imposizione di una veste ruvida e povera di umiliazione, il cilicio (cfr. Esth. 4, 3; Matth. 11, 21). Vale a dire che l’uso di questo simbolo percorre tutta la tradizione dell’antico e del nuovo Testamento, e entra in quel robusto linguaggio che la divina pedagogia della salvezza impiega non già per sospingerci alla disperazione, ma alla conversione, alla penitenza cioè, principio e via della nostra riabilitazione e condizione per ricuperare ciò che da noi non più e non mai potremmo conseguire: la misericordia di Dio, la sua grazia, la nostra vita soprannaturale, l’unica in cui deve risolversi ogni nostra aspirazione.
“Alunno” viene da alere, cioè “nutrire”: e talvolta ci si nutre di “lezioni tremende”. Paolo VI accennò in quel contesto, pudicamente ma esplicitamente, al cilicio, «veste ruvida e povera di umiliazione», rimandando ai fondamenti scritturistici di Ester e al formidabile guai di Gesù contro Corazin e Betsaida.
Dunque il cilicio non è “una fantasia medievale”, quasi che faccia il paio con le mitologiche “cinture di castità” (più documentate nella letteratura carnascialesca e cavalleresca che realmente immaginabili nella realtà quotidiana): la “veste di sacco” è un segnale efficace e forte di penitenza.
Quali siano il significato e l’intento di una simile mortificazione cercò di esporlo immediatamente lo stesso Paolo VI:
Ci si può chiedere, noi moderni, se questa pedagogia sia ancora comprensibile. Rispondiamo affermativamente. Perché è pedagogia realista. È un severo richiamo alla verità. Ci riporta alla visione giusta della nostra esistenza e del nostro destino. Ci presenta la filosofia della sapienza. Essa sorprende l’uomo moderno sotto due aspetti: quello della sua immensa capacità di illusione, di auto-suggestione, di inganno sistematico di se stesso sopra la realtà della vita e dei suoi valori; e ci grida che siamo mortali e che dobbiamo dare una spiegazione soddisfacente a questa nostra sorte, la quale, se compresa e ben meditata, ci obbliga a rivolgere il nostro supremo interesse verso i valori che sfuggono alla condanna della cenere: i valori spirituali, i valori morali. E l’altro aspetto, sotto il quale l’uomo moderno è accessibile da questo crudo insegnamento, è il fondamentale pessimismo dell’uomo stesso. Si può dire che la maggior parte della documentazione umana, offertaci oggi dalla filosofia, dalla letteratura, dallo spettacolo, conclude per proclamare l’ineluttabile vanità d’ogni cosa, l’immensa tristezza della vita, la metafisica dell’assurdo e del nulla. Questa documentazione è un’apologia della cenere. Ma mentre essa nella cenere si affonda e sconsolata rimane, la lezione dell’ascetica cristiana dalla cenere risale alla speranza e alla vita, facendone strumento di penitenza, cioè di conversione, di cambiamento, di nuova ripresa di vigore e di gaudio.
Difficile aggiungere qualcosa a questa potente sintesi del Papa di Concesio: difficile pure spiegare tanta densità senza postulare una lunga riflessione, legata a sua volta a una lenta esperienza pratica personale. Visto che la parafrasi moderna l’ha così concisamente fatta Montini, quello che può interessarci resta allora una panoramica sulla storia della Chiesa.

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