Giovanni il Battista, deserti e giubilei.
Posted by don Cristiano Mauri in Commenti al Vangelo.

Andarono da Giovanni e gli dissero: «Rabbì, colui che era con te dall’altra parte del Giordano e al quale hai dato testimonianza, ecco, sta battezzando e tutti accorrono a lui». Giovanni rispose: «Nessuno può prendersi qualcosa se non gli è stata data dal cielo. Voi stessi mi siete testimoni che io ho detto: “Non sono io il Cristo”, ma: “Sono stato mandato avanti a lui”. Lo sposo è colui al quale appartiene la sposa; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è piena. Lui deve crescere; io, invece, diminuire». (Gv 3)

Fuori di sé. Il Battista è letteralmente fuori di sé.

Nulla di strano, a dire il vero. Chi attende, chi attende davvero, è sempre fuori di sé, proteso verso un altro o un altrove in cui trovare compimento. E Giovanni, appunto, attende.

Sequestrato dalla promessa di «Colui che viene», non fa di quell’attesa un tempo sospeso senza un “che” o un “come”, ma un deserto in cui andare e riandare in esodo costante incontro a Chi è chiamato ad annunciare.

Le lande deserte in cui sceglie di abitare non sono, perciò, un vezzo ascetico. Sono il suo clima interiore, la sua prospettiva di vita. Dove l’occhio si smarrisce in cerca di un riferimento su cui sostare. Dove tutto è strada e niente è casa. Dove abitare può essere sempre e solo andare. La sua casa è la terra dell’Esodo.

Un uomo a cui non basta lo stretto giro dei traffici politico-religiosi del suo tempo. Uno a cui l’esteriorità dei riti, l’ipocrisia delle osservanze esteriori, le pratiche ostentate da cuori incirconcisi tolgono l’aria.


Via, fuori.

Perfino il contorno serio della sua nobile identità di precursore, della sua tagliente predicazione e della sua irrinunciabile missione pare sufficiente a garantirgli un respiro sufficientemente vasto.

Ci vuole altro. Un che di universale, di integrale, di infinito, di eterno.

Giovanni è fuori di sé perché non c’è altro modo di posizionarsi dentro il «senza misura» degli spazi di Dio. A Lui, infatti, si va sempre e solo per un esodo. E in quel deserto esteriore e interiore – fuori di sé – Giovanni scopre la sorgente della propria gioia. Non all’interno della propria affermazione, non nel recinto della realizzazione dei propri piani, non nei confini della riuscita della propria predicazione.

Mentre i suoi discepoli si rinchiudono nel circolo asfittico delle loro discussioni di piccolo cabotaggio – «tutti accorrono a colui che hai battezzato…» – Giovanni è già oltre, proiettato sul palcoscenico del compiersi del Mistero del Regno: lo Sposo è presente, la Sposa è pronta, l’Alleanza è nuova ed eterna.

La Voce e la Presenza, l’agire dello Sposo per la sposa, sono la gioia senza misura di Giovanni.

Se gli altri stanno a rimirarsi la punta delle scarpe, lui permane in esodo, calca il suo deserto a testa alta e gode del vedere e sentire l’avvento di «Colui che viene».

Che importa se è tempo di sparire? Che importa se è tempo di finire?

Giovanni, fuori di sé, ha già abbandonato per strada quel sé ingombrante, per prendere posto in uno spazio – e in una gioia – così grande da rendere trascurabile ogni altra istanza.

La gioia di cui è colmato, quella a cui ha scelto di andare incontro, fa di lui il testimone e il profeta che sa dire e indicare nel suo «oggi», il dove e il come del Regno che si compie.

Quando immagino la «Chiesa in uscita» e i «cristiani in uscita», secondo la bella espressione di Papa Francesco, prima ancora che all’andare incontro all’altro, mi viene da pensare immediatamente a questo tipo di esodo compiuto da Giovanni, questo radicale riposizionamento fuori di sé, dentro l’orizzonte ampio dell’agire di Dio in questo oggi, in questa storia.

Partire da ciò che si è, si fa, si pensa, si progetta, si vuole… Perfino da ciò che si professa, per lasciarlo e andare oltre. Smontare la falsa illusione di una gioia cercata nella riuscita del proprio fare e nella bella forma del proprio essere, amare, credere. Smettere di contarsi, verificarsi, parlarsi addosso. Rinunciare a misurare l’efficacia di quel che si realizza, la forza di ciò che si afferma, la solidità del modo in cui si testimonia.

La «Chiesa in uscita» non è quella che semplicemente ammoderna le iniziative, che dà una lucidata al linguaggio vetusto, che smolla qualche articolazione anchilosata per procedere verso le cosiddette “periferie esistenziali”.

È quella che, sollevando lo sguardo da se stessa, più radicalmente va in cerca dello Sposo, sapendolo presente, vivo e operante, chino sull’umanità Sua sposa che attende le Sue attenzioni. Ed esulta, stupita e commossa, quando ne vede e ne ascolta la Voce e la Presenza, facendosi anzitutto così testimone del Regno, libera e disinteressata perfino del proprio destino.

Il Giubileo o è l’annuncio della presenza dello Sposo che ama l’umanità sua sposa e che la dichiara bella, al di là di ogni possibile sua decadenza, oppure non è.

La Chiesa – e il cristiano – che celebra il Giubileo è quella che si riposiziona fuori di sé, dentro gli orizzonti di una Misericordia che la supera in ogni direzione, a partire dalla quale essa stessa deve ogni volta ricomprendersi e a servizio della quale deve sempre porsi.

La Porta Santa, quella del Regno, è quella che conduce chi la varca fuori di sé.

Perché non c’è libertà più grande di questa.

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