Paolo Curtaz
In questa strana estate assistiamo, annichiliti,
alla violenza di chi, in nome di Dio,
uccide chi la pensa diversamente.
Le notizie che ci giungono dalla piana di Mosul,
dove decine di migliaia di cristiani devono fuggire dalla furia dell’Isis, ci stringono il cuore e ci sconcertano.
Perché Dio non interviene?
Perché non protegge gli inermi dalla furia cieca della follia omicida?
Come vorremmo un Dio inteventista!
L’idea di un Messia vittorioso e combattivo,
che avrebbe reso giustizia dell’oppressione del popolo,
è l’orizzonte in cui si situa l’episodio evangelico di oggi, continuazione di quello di domenica scorsa.
Pietro riconosce in Gesù il Messia.
Gesù, però, non vuole creare illusioni.
Pietro ha faticato, e non poco,
a dichiarare che il falegname di Nazareth è il Messia
atteso da Israele.
Troppo diverso il suo modo di servire il Regno,
troppo audace la sua predicazione,
troppo innovativa la sua idea di Dio
per poterlo identificare con il nuovo e glorioso re Davide
che avrebbe ricostituito la gloria del passato Israele
e che tutti aspettavano!
Pietro aveva riconosciuto in Gesù il Cristo
e Gesù lo aveva riconosciuto come pietra da costruzione,
come pietra viva fondata sulla fede,
la pietra che avrebbe sostenuto altri fratelli nella fede.
Ora, invece, Pietro diventa pietra di inciampo,
pietra di scandalo.
Brutta storia.
Un altro Messia
Ora che Pietro lo ha riconosciuto come Messia,
Gesù spiega a tutti cosa significa per lui essere “messia”.
Nessuna gloria, nessun potere,
nessun compromesso nel suo essere messia.
Gesù dice di essere disposto ad andare
fino in fondo nella sua scelta,
è disposto a morire piuttosto che rinnegare il suo volto di Dio.
E così sarà.
I discepoli restano interdetti:
fino a poco tempo prima avevano ragionato su chi
sarebbe stato messo a capo del nuovo Regno,
ora Gesù parla di dolore e di morte.
Pietro lo prende da parte (è pur sempre il papa!)
e lo invita a cambiare linguaggio
a non scoraggiare il morale delle truppe.
Anche lui, come spesso facciamo noi,
vuole insegnare a Dio come si fa a fare Dio.
E Gesù reagisce, duramente:
cambia mentalità,
Pietro, diventa discepolo.
Troppe volte invece di seguire il Signore lo precediamo.
Siamo noi ad indicargli al strada,
non seguiamo più la strada che egli ci indica.
Siamo noi a suggerirgli le soluzioni ai problemi,
non ci fidiamo più della sua presenza, della sua azione.
Pretendiamo che sia Dio a diventare nostro discepolo.
Geremia, nella prima lettura,
si lamenta con Dio.
Lui voleva fare il profeta di buone notizie,
è diventato un rompiscatole insostenibile,
tutti lo odiamo, anche i suoi famigliari.
Geremia vorrebbe lasciare (come biasimarlo?),
ma riflette e ritorna alla fiamma che l’ha sedotto.
Quando mettiamo noi stessi al posto di Dio,
della fiamma, facciamo come Pietro
e ci allontaniamo dal cammino.
Non chiederti a che punto sei nel tuo percorso interiore.
Chiediti se sei ancora dietro a Cristo.
A tutti
Gesù insiste, ora, si rivolge a tutti, a noi.
Non blandisce le persone,
non cerca facili discepoli,
non seduce,
non ama il marketing.
La sua proposta è cruda,
diretta,
atroce,
insostenibile.
Pronuncia tre imperativi che risuonano come una sfida.
Vuoi essere mio discepolo?
Rinnega te stesso.
Cioè non mettere te stesso al centro dell’universo,
non voler emergere a tutti i costi,
non fare come tutti che,
nel mondo, sgomitano per essere visti e notati.
Sei unico, sei prezioso sei un capolavoro,
perché devi combattere per dimostrarlo agli altri?
Il discepolo, come il Maestro,
prende a cuore la felicità di chi gli sta accanto,
guarda oltre,
mette la sua vita in gioco perché tutti
possano appartenere al Regno.
Non mettere sempre te stesso al centro,
metti il sogno di Dio al centro,
con libertà,
da adulto,
da uomo nuovo.
Prendi la tua croce.
Cioè non avere paura di amare fino a soffrire,
di amare fino a perderti.
Come Geremia che non riesce a staccarsi
dall’amore bruciante di Dio nonostante
le tante delusioni che sta vivendo.
Purtroppo una certa devozione spicciola
ha finito con lo stravolgere la simbologia della croce:
nata come misura dell’amore di Dio,
è divenuta l’emblema del dolore.
Dio non ama il dolore, sia chiaro,
né lo esige (e ci mancherebbe!)
ma, a volte, amare significa anche sopportare e soffrire.
E Gesù ne sa qualcosa.
Seguimi.
Condividi la scelta di Gesù,
il suo sogno,
il suo progetto.
Dio è presente e si manifesta a noi,
orienta le nostre scelte con equilibrio e intelligenza,
ascoltando la sua Parola,
lasciandoci plasmare dalla sua voce interiore.
Seguire Gesù significa cambiare orizzonte,
conoscere la Parola a lasciare che sia la fede a motivare
e cambiare le nostre scelte, convertire i nostri cuori.
Siamo per sempre discepoli,
per sempre cercatori,
mai veramente arrivati.
Nuove logiche, nuovo Dio
Avete perfettamente ragione:
come si fa a seguire un Dio così?
Infatti lentamente ed inesorabilmente
abbiamo annacquato questa pagina,
l’abbiamo resa accettabile, possibile, ragionevole.
Ma l’amore di Dio ha ben poco di ragionevole e, spesso,
indica vette altissime per ribadire che siamo capaci,
assieme a lui, di diventare discepoli.
Vangelo esigente, alla fine di un’estate fredda,
almeno qui dalle mie parti.
Ma un vangelo che ci spalanca al sogno di Dio...........
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