Quanto misura l'incalcolabile?

di Maddalena Negri

Più di una voce si è levata, seppur sempre troppo bassa 
(o inascoltata) perché potesse fare la differenza, 
per attirare l’attenzione sulle stragi ormai quotidiane di Boko Haram. 
In Nigeria sono ormai migliaia le vittime; 
e ai morti vanno aggiunte le persone che hanno subito violenze fisiche e psicologiche atroci e inimmaginabili. 
I grandi numeri sono sempre difficili da immaginare. 
Ma migliaia di persone equivalgono a una cittadina di medie dimensioni, 
di quelle dimensioni che appartengono 
a numerose realtà che costellano la Pianura Padana. 
Troppo vicine a città più grandi 
per essere definite capoluoghi di provincia, 
ma altrettanto lontane dalla misura di paesello.

Qualcuno ha cercato goffamente di “rivendicare” l’attenzione mediatica, 
basandosi sul numero maggiore di persone coinvolte nelle azioni militari 
di questa organizzazione, 
di fronte al quale, evidentemente, 
la manciata di morti francesi impallidiscono senza pietà.
Qualcuno ha chiesto che si scenda in piazza per Boko Haram, 
come per Charlie Hebdo. 


Ma è giusto questo? 
È possibile ridurre la morte a numeri e statistiche? 
Possono i conteggi descrivere il dolore 
o quantificare la sofferenza?
Rivendicazione legittima, purché non sia letto 
come “una guerra tra poveri”, 
perché il dolore non può essere motivo di contrattazione 
o di ricatto, per nessuna ragione.
Ogni uomo è un volto, che gioisca o che soffra. 
A quel volte sono legati sensazioni e sentimenti 
ed ogni singolo uomo è importante soprattutto in quanto 
“nodo” di una rete che lo coinvolgono, di cui è protagonista. 
Ogni persona è figlio o figlia, amico o amica, 
padre o madre, nonno o nonna, 
compagno o compagna di scuola, di lavoro, di università, di vita: 
sono questi rapporti che spiegano chi siamo: 
a noi stessi, a chi li vive con noi e al mondo intero. 
Ed è sulla base di questi rapporti che noi giochiamo la nostra vita 
e siamo riconosciuti nel nostro ruolo di noi stessi. 
Uno o diecimila, noi soffriamo per la madre, il padre, l’amico, 
l’amante, la moglie, il marito che abbiamo perso. 
Sentiamo nostalgia per i momenti felici trascorsi insieme 
e siamo ancora più confusi se si tratta di una morte violenta: 
per quanto possiamo razionalmente dire a noi stessi 
che l’odio non serve, 
che l’odio fa solo stare peggio chi già soffre, 
è umanissimo e forse quasi inevitabile 
avere sentimenti di rancore e di risentimento 
verso chi si è permesso di spezzare impunemente, 
con violenza, quella vita a cui eravamo tanto legati, 
che ci regalava gioia, amore, simpatia, attenzione, 
che ci faceva sentire importante o, 
più semplicemente, la cui compagnia ci era gradita.


La morte ci tuffa sempre in un mistero che ci sovrasta 
e mette a dura prova la nostra condizione di uomini; 
ma ciò si realizza in modo ancora più profondo 
quando si tratta di una morte violenta. 
La violenza rende tutto più difficile da accettare, 
illogico, irrazionale, incomprensibile. 
L’incomprensibilità annichilisce ogni ragionamento, 
la rabbia monta e le sensazioni prevalgono sulla razionalità: 
niente di meglio per ottenere una perdita di controllo 
a livello globale, uno smarrimento collettivo 
nel quale meglio serpeggia e s’impadronisce della società 
quel terrore che rende più facilmente controllabili le masse.
È una provocazione esasperante questo confronto tra morti. 
Ma è ingiusto. 
Perché il valore di ogni singola vita è - 
semplicemente - incalcolabile, 
motivo per il quale nessun paragone può sussistere. 
Il dolore viaggia su un piano ben diverso, 
che lo rende inquantificabile, non misurabile.
La sofferenza richiama empatia, 
non si quantifica sulla base del conteggio del vittime. 
Basta una sola vittima di atrocità 
perché sia giustificabile scendere in piazza, 
protestare, fare qualsiasi cosa in nostro potere 
perché ciò non accada più. 
È vero: dalla morte non si torna, 
ma almeno si può imparare da una morte atroce, ingiusta. 
si possono evitare altre morti simili. 
Si dovrebbe almeno provare ad ottenere questo, a mio avviso.
Tuttavia, la domanda è più incisiva. 
Perché ci siamo sentiti tanto coinvolti, 
nel dramma di Charlie Hebdo? 
Cosa ci ha fatto sentire tanto vicini a quella manciata di persone? 
Solo il colore della pelle? 
Non credo, perché in realtà anche tra le vittime 
c’erano persone di colore, di fede islamiche, 
ebrea oppure di nessuna. 
Non avevano altro tratto comune se non quello 
di essere persone al posto sbagliato nel momento sbagliato. 
Che differenza c’è tra i morti della Francia e quelli d’Africa? 
Perché non ci sentiamo così coinvolti 
nelle morti causate da Boko Haram, 
come ci siamo sentiti invece per i morti all’ombra della Torre Eiffel? 
Manipolano anche la nostra emotività 
oppure davvero facciamo fatica a provare 
com-passione per la tragedia africana?
Credo che le vicende francesi 
abbiano provocato una meraviglia inusitata 
perché hanno distrutto le nostre certezze, 
tutte quelle che davamo per scontate e non erano 
- quindi - più oggetto di riflessione. 
La satira, anche blasfema, è ormai all’ordine del giorno 
da tempo e a dire che non va bene 
ci si sente dare dei “trogloditi” o dei “medievali”, 
perché non si rispetta la libertà d’espressione. 
A nessuno però viene in mente che 
c’è una differenza tra libertà d’espressione e insulto; 
di fronte alla libertà d’espressione, tutti alziamo le mani, 
perché è qualcosa che nessuno vorrebbe in nessun modo negare 
o togliere a qualcuno 
(almeno a parole, perché, poi, nei fatti, 
sappiamo bene come non tutte le idee 
abbiano eguale diritto di cittadinanza…). 
Questi fatti ci hanno confuso, perché è fuori da ogni logica, 
nel nostro modo di vedere, sedimentato col tempo, 
ma conquistato centimetro dopo centimetro 
che non possano comunque essere messi sullo stesso piano 
reati che colpiscono la persona violenti e reati di parola 
(come la diffamazione). 
Posso anche diffondere la menzogna 
e rovinare una reputazione, 
ma a livello giuridico non è valutato dal diritto 
come un qualsivoglia danno fisico.
Qualcuno si è scandalizzato di fronte alle parole del Papa, 
però riflettere su un argomento come questo non è scontato: 
qual è il limite tra satira e violenza verbale? 
In fondo, il bullismo spesso non si manifesta 
con forme alquanto simili, 
quali vessazioni verbali a persone 
non conformi agli schemi ideologici del vessatore 
o scherzi di dubbio gusto legati a qualche suo aspetto 
(fisico o psicologico)? 
Dovremmo forse ridurre il bullismo 
a mancanza d’ironia della vittima 
o forse c’è da pensare che in tutte le cose sia necessarie porre, 
quanto meno il limite implicito del buon senso?
No, non giustifico la violenza. 
Ne amplio il significato. 
Non esiste solo la violenza fisica. 
Ci sono ferite dell’anima che hanno forma apparente di scherzo, 
ma sono manifestazioni di vessazione 
e sopraffazione nei confronti di chi non si conforma 
al cliché imposto dal più forte della situazione contingente. 
La sensibilità altrui non è un optional, 
ma una necessità da considerare, 
nel caso di una serena e civile convivenza.
La tragedia di migliaia di persone è senz’altro un peccato 
tra quelli che gridano vendetta al cospetto di Dio 
ed è palese quindi richiedere a gran voce 
che anche i media si mobilitano in modo adeguato, 
che diano voce alla disperazione di chi 
non ha la possibilità di farsi sentire. 
Ma trovo improprio ricercare una proporzionalità tra le tragedie: 
esse sono sempre immani 
perché ogni anima che soffre merita di essere consolata, 
chiunque sia........


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