La compagnia della dolce morte di Repubblica
di Luigi Santambrogio
La pagina di Repubblica con l'intervista
all'infermiere che pratica l'eutanasia
Un quarto d’ora di celebrità non si nega a nessuno.
Neppure agli angeli della morte, medici e infermieri
che praticano l’omicidio assistito.
Aiutano, cioè, l’ammalato terminale a uscire dalla vista
in silenzio e beffando la legge.
Per pietà e compassione, dicono loro.
O anche per calcolo cinico contro chi occupa
ormai inutilmente un prezioso posto letto,
togliendolo a chi ha una chance in più.
Lo dice Michele (ma il nome è di fantasia)
intervistato da Repubblica
che gli concede l’onore della prima pagina.
Due giorni fa c’era il teologo Hans Kung
a inneggiare alla libertà di scegliere il come e il quando farla finita.
La campagna del quotidiano per la legalizzazione dell’eutanasia
procede a ranghi serrati:
dopo Hans il testimonial è lui:
una laurea, la specializzazione, il master,
la carriera infermieristica fino a diventare caposala
all’ospedale Careggi di Firenze.
L’infermiere, ci informa Repubblica,
non è ateo, anzi, è un cattolico praticante
e va a messa due volte la settimana.
Eppure, non esiterebbe se necessario, a chiedere ai colleghi
«una botta di morfina, perché in quei momenti
non c’è fede che tenga».
Il segnale repubblichino è chiaro:
questo non è l’outing di un killer senza dio,
l’eutanasia la fanno anche i cattolici
devoti alla messa bisettimanale.
E l’arcangelo Michele conferma: «Qui Dio non c’entra nulla.
Sono un professionista, ho studiato.
Se teniamo in vita artificialmente un paziente,
siamo noi che ci stiamo sostituendo a Dio...».
Perfetto, ma se così è, dev’essere vero anche il contrario.
Ok, dato a Michele quel che è di Michele
e mandato il Padreterno a occuparsi d’altro,
il quotidiano ci ricorda che negli ospedali italiani,
medici e infermieri hanno a che fare
con almeno 30-40 casi di persone sospese
in una terra di mezzo «dove il confine tra cosa è eutanasia
e cosa non è sottilissimo» e che almeno il 64, 6% degli italiani
è favorevole alla dolce morte (Eurispes).
Beh, il nostro infermiere che ha studiato questo confine
pare non conoscerlo troppo bene, oppure finge di ignorarlo:
lui mescola senza distinzione l’accanimento terapeutico,
già normato dalle legge,
la povera Eluana e i malati in stato vegetativo,
in un crescendo di casi pietosi dove il distacco della spina
è rubricata tra le opere di misericordia.
Agghiacciante nella sua sincerità la parte del racconto
dedicata al rapporto tra i medici e i parenti dei malati terminali.
Dice Michele: «Formalmente il medico non può dire
“va bene, stacco la macchina”.
Bisogna saper comunicare il concetto,
ma senza esprimerlo fino in fondo.
Tocca fare gli equilibristi con le parole».
Insomma, segnali in codice, mezze parole e sguardi da decifrare,
cose che fanno dell’infermiere il mestiere più pericoloso al mondo.
«Avessimo lo scudo del testamento biologico»,
si lamenta Michele «sarebbe tutto più semplice.
Capita che un parente ci faccia capire qualcosa e poi cambi idea.
Oppure non tutta la famiglia è d’accordo,
i genitori ad esempio tendono a non rassegnarsi,
generi o nuore invece sono più pragmatici».
Dunque, mai lasciare l’ultima parola a generi e nuore.
Comunque, chiude l’impavido infermiere,
«noi prendiamo dei rischi enormi».
E allora, chi glielo fa fare a questi compagnucci delle dolce morte?
«Sembrerò crudo», risponde,
«ma un posto letto in un reparto come il mio
potrebbe servire a chi ancora, invece, ce la può fare».
Ecco uno che per una buona causa è pronto a dare la vita:
quella degli altri, però.
Il pensiero che magari medici e infermieri potrebbero battersi
per avere più posti letto e un buon servizio sanitario per tutti,
pare non sfiorare Michele che attende invece
con trepidazione e speranza il tempo in cui i malati potranno
«scegliere quando andarsene, in maniera degna,
lasciando un bel ricordo di sé agli altri».
Fine dell’intervista e alla prossima puntata:
c’è da scommettere che Repubblica la dedicherà
al commovente racconto di un malato di cancro
che vuole “andarsene con dignità”,
ma che lo Stato crudele lo costringe a buttarsi dal sesto piano.
É la stessa manfrina che abbiamo sentito migliaia di volte
a proposito dell’aborto:
si deve dare la possibilità di uccidere il proprio figlio in sicurezza,
senza drammi né traumi (per la madre).
L’unica cosa cui si debba prestare attenzione
non sia tanto quella di evitare omicidi e suicidi,
ma che questi avvengano in modo pulito, formale,
in bianchi letti di ospedale con la firma a piè di pagina
di un medico sul modulo prestampati.
È questione di stile: buttarsi giù da una finestra è volgare,
passare a miglior vita con un’iniezione è più civile.
Dolce morte: solo questo è concesso all’uomo?
O non occorrerà invece che sulla finitezza,
sul mistero di una libertà imperfetta,
si facciano finalmente i nostri conti?
Magari solo per scoprire che non sappiamo contare.?
E poi: si può davvero mettere ai voti
e regolare per legge l’uscita dalla vita?
La società dei sani e perfetti, dei felici e contenti
è solo una tragica illusione,
un inganno che ha già desertificato la storia.
Solo la malafede politica può osare riproporlo,
mascherando un delitto come espressione nobilissima
ed estrema della libertà.
Offrire un farmaco letale al malato al quale i medici
non diano più di sei mesi di vita,
significa mandare un chiaro messaggio:
certe vite al crepuscolo sono inutili, senza valore,
senza speranza di avere ancora senso.
Il prossimo passo sarà il modello proposto
dalle associazioni Exit e Dignitas, che in Svizzera
offrono i loro pacchetti tutto compreso di suicidio assistito
anche a persone depresse o stanche di vivere
o che si sentono ormai troppo anziane.
No, gli spot eutanasici di Repubblica
sono soltanto un irragionevole invito
ad alzare bandiera bianca
e a soffocare l’urlo della nostra umanità ferita...........
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