Lo stile comunicativo di Gesù "copiato" da papa Francesco

La parresìa e quelle parole come pietre d'inciampo

CARD. GIANFRANCO RAVASI 


Se l'ira è uno dei sette vizi capitali, 
bisogna però subito osservare che lo sdegno 
può essere una virtù
Infatti si tratta di uno schierarsi apertamente, coscientemente 
e appassionatamente dalla parte del bene, 
della verità, della giustizia, opponendosi al male, 
alla menzogna e all'ingiustizia. 
Il modo espressivo dell'indignazione 
è quello delle controversie che sono un genere letterario 
adottato dai Vangeli: 
basti leggere il capitolo 23 di Matteo. 
Ovviamente il dibattito, la dialettica, la polemica 
da sempre costituiscono il sale della comunicazione. 
Se usato in dosi massicce, come accade ai nostri giorni 
in televisione o in politica, 
rovina irrimediabilmente la comunicazione, 
facendola degenerare in rissa e incomunicabilità ottusa. 
Nel Nuovo Testamento si adotta un termine della società greca, 
parresìa, per esaltare la libertà e il coraggio 
di poter testimoniare in pubblico la propria convinzione e fede.

Ebbene, Gesù non teme di confrontarsi, anche con durezza, 
con la classe dirigente politica, religiosa e sacerdotale: 
basti solo leggere i due cicli di controversie 
con scribi e farisei posti in apertura (Mc 2,1-3,6) 
e a suggello del suo ministero pubblico (Mc 11-12). 
Ma gli esempi si possono moltiplicare 
e hanno alla base una componente fondamentale, 
cioè la comunicazione della verità contro ogni doppiezza: 
“Sia il vostro linguaggio: sì, sì; no, no;
il superfluo procede dal maligno” (Mt 5,36-37).

Si tratta di un aspetto messo sovente in sordina 
nella retorica dell'oratoria ecclesiastica, 
incline a lasciarsi intridere da robuste porzioni 
di melassa spiritualmente dolciastra. 
Sulla scia dello stile dei profeti le parole di Cristo 
conoscono spesso lo sdegno che si accende soprattutto 
di fronte all'ipocrisia religiosa che, 
sotto il manto di una pietà artificiosa e formale, 
nasconde egoismi inconfessati e interessi inconfessabili. 
Pensiamo alla frusta agitata contro i mercanti 
che trasformano il tempio di Sion in “una spelonca di ladri” 
(Mt 21,13), come già protestavano i profeti (Ger 7,11). 
Tutto il giudaismo ufficiale è metaforicamente frustato 
nelle varie polemiche che Gesù apre 
contro le varie fazioni dei sadducei, 
dei farisei, degli erodiani, contro le classi sacerdotali 
e intellettuali (gli scribi): 
basterebbe rimandare ai sette “Guai!” del capitolo 23 di Matteo 
o all'attacco contro i “mercenari” o falsi pastori di Israele 
presente nel capitolo 10 di Giovanni.

Il culto separato dalla vita, la liturgia senza la giustizia, 
il digiuno retoricamente conclamato, 
l'elemosina e la preghiera ostentate 
sono denunziati senza reticenze, 
e la parabola del pubblicano e del fariseo (Lc 18,9-14) 
ne è una vigorosa testimonianza. 
Il fariseo, avvolto nel manto glorioso delle sue opere 
e della sua giustizia, è convinto della sua giustizia 
e dei doveri di Dio nei suoi confronti. 
Il pubblicano, peccatore pentito, con il riconoscimento umile 
della sua miseria morale diventa il vero uomo religioso. 
L'idolatria della ricchezza, l'egoismo, la violenza e l'odio 
escludono dal regno di Dio. 
“Se stai per deporre sull'altare la tua offerta 
e là ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, 
lascia la tua offerta davanti all'altare 
e va' prima a riconciliarti con tuo fratello; 
dopo verrai a offrire il tuo dono” (Mt 5,23-24).

Sono molte le parole di Gesù simili a quella spada 
che egli diceva di aver portato nella storia: 
“Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla terra; 
non sono venuto a portare la pace, ma la spada. 
Sono venuto a separare l'uomo da suo padre, 
la figlia da sua madre, la nuora da sua suocera […] 
Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, 
e vorrei davvero che fosse già acceso!”. 
(Mt 10,34-35; Lc 12,49).

Molte sono le parole dure, radicali e assolute, 
rese ancor più veementi dal calco semitico, 
come nel caso della celebre frase: 
“Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, 
i figli, i fratelli, le sorelle e anche la propria vita, 
non può essere mio discepolo” (Lc 14,26). 
In realtà Gesù, come è ovvio, non suggerisce l'odio 
che ha sempre bandito dal suo sdegno, 
ma riflette il linguaggio semitico che ignora il comparativo 
e procede per assoluti, 
che trasforma un “amare meno” in “odiare”. 
Rimane, comunque, la potenza indimenticabile di quel monito.

Il discorso potrebbe allargarsi e costringerci a citare 
quasi metà delle parole di Gesù, 
segnate dal colore e dal calore, 
dalla passione e dall'intensità, dall'esigenza forte e assoluta, 
da un radicalismo che detesta il compromesso 
(in questo senso dev'essere intesa la sua visione 
del matrimonio come totale e indissolubile donazione d'amore, 
senza riserve e limiti: 
Mc 10,1-12; Mt 5,31-32; 19,1-9).


[Tratto da Gianfranco Ravasi, “Seguirlo nel cammino” 
(Edizioni San Paolo)]

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