A colloquio con il giurista argentino Roberto Carlés

Se la pena  diventa tortura

di  SILVINA PÉREZ

Abolire la pena di morte in tutte le sue forme così come l’ergastolo, una «pena di morte nascosta». Francesco non potrebbe essere più netto nelle sue richieste. «La giustizia rispetti la dignità della persona» quindi no anche alla carcerazione preventiva, di fatto una pena illecita occulta, e no alle carceri di massima sicurezza dove la reclusione si trasforma in tortura. Lo scrive Papa Francesco in un messaggio alla Commissione Internazionale contro la pena di morte, consegnata personalmente venerdì 20 marzo al presidente dell’organismo, Federico Mayor e ai suoi rappresentanti durante l’incontro in Vaticano. Il sistema penale può rinchiudere i trasgressori ma, afferma Bergoglio, «mai deve privarli della loro speranza». Roberto Carlés — un giovane giurista argentino di 33 anni — fa parte della Commissione Internazionale contro la pena di morte e, da ieri, ha il compito di essere il trait d’union tra il Santo Padre e quest’ultima per elaborare proposte tecniche concrete nella ricerca dell’abolizione della pena di morte. «Il nostro impegno — ci dice — è quello di coniugare l’impegno concreto alla riflessione teorica in favore della battaglia contro la pena di morte».

Si osserva una tendenza mondiale verso l’abolizione della pena di morte. 
Qual è la situazione attuale?

Benché il ricorso alla pena di morte sia in diminuzione in tutto il mondo, i numeri sono ancora troppo alti. Nei Paesi in cui vige la pena capitale ci sono seri problemi riguardo al rispetto delle norme e degli standard internazionali, in particolare per quanto riguarda la limitazione della pena di morte unicamente ai reati più gravi, l’inapplicabilità ai minorenni e le garanzie per un processo equo. La pena capitale non è compatibile con il rispetto dei diritti dell’uomo, svilisce anche la dignità umana e il diritto di non essere sottoposti a tortura e ad altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti. Poi il suo carattere irreversibile rende impossibili le revisioni delle sentenze, portando, in alcuni casi, all’esecuzione di persone innocenti. Questo basta a toglierle qualsiasi legittimità. Inoltre, la pena capitale non impedisce che i delitti vengano commessi, non garantisce maggiore sicurezza, come non porta giustizia né consente risarcimenti alla società nel suo complesso o alle famiglie delle vittime di un crimine. A livello mondiale, tuttavia, il cammino verso l’ab olizione richiede un impegno forte e costante. I cambiamenti non avvengono da un giorno all’altro. È un’evoluzione lenta e graduale. I progressi sono tuttavia reali e dobbiamo fare in modo che proseguano.

Il Papa ha condannato l’ergastolo sostenendo che è una pena di morte nascosta: 
cosa ha provato ascoltandolo?

Il Pontefice ha lanciato un messaggio molto forte e coraggioso che spero possa aiutare ad accelerare il dibattito pubblico sull’abolizione dell’ergastolo ostativo, quel “fine pena: mai” che è in stridente contraddizione con l’idea cristiana di un perdono e di una redenzione sempre possibili, oltre che con un principio-cardine della civiltà giuridica occidentale che fa riferimento al carattere rieducativo, e non semplicemente punitivo, della pena. La lettera di quattro pagine che il Pontefice ci ha consegnato durante l’incontro di venerdì è un ampio discorso sulla giustizia umana: non solo Francesco condanna l’ergastolo, il carcere preventivo e la corruzione, ma soprattutto e innanzitutto chiede di abolire la pena capitale, «legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme». Il Papa sostiene anche che «la pena dell’ergastolo, così come tutte le condanne che per la loro durata rendono impossibile per il condannato progettare un futuro, può essere considerata una pena di morte nascosta» perché non si priva la persona solo della sua libertà ma anche della «speranza». Guardi, in queste parole ho riscontrato il senso della giustizia-ingiustizia presente nella tragedia di Antigone. Giustizia e vita sono due parole che stanno o cadono insieme: non c’è l’una senza l’altra. Se togli una, cade l’altra, se togli la vita, cade la giustizia: è un punto saldo, fermo, per la riflessione, ma anche un programma concreto d’azione e un impegno che questa commissione ha assunto con Papa Francesco.

 È giusto ipotizzare che anche i responsabili dei reati più efferati possano uscire?

Ritengo che sia un principio giusto. Credo che l’ergastolo sia una pena inumana, dovrebbe essere abolita. Sono riflessioni affrontate spesso dai teologi e dai giuristi. Secondo alcuni teologi è illogico pensare che sia punito con l’eternità un fatto che è stato compiuto nello spazio e nel tempo. Io penso che per quanto una condotta sia stata efferata, dopo venti anni dal fatto la persona non è più quella. Sono convinto che questo dibattito si arricchirà notevolmente di molti contributi durante il prossimo giubileo: il tema della misericordia è stato centrale in questi primi due anni di pontificato.

Poi c’è il rovescio della medaglia, il tema della carcerazione preventiva. 
Cosa ne pensa?

Il Papa ha messo in guardia «giudici e operatori del sistema penale» dalla «pressione dei mezzi di comunicazione di massa e dalla cattiva politica». Il ragionamento parte da una premessa, un monito che ha l’obiettivo di formare una giustizia integrale che è in linea con la lettera del maggio 2014 ai partecipanti al XIX congresso internazionale della stessa Associazione internazionale di diritto penale.

Lei appartiene a quella generazione di trentaquarantenni costretta dalla crisi e dalla storia ad accettare le sfide e ad assumere le responsabilità del tempo presente. 
In Europa i giovani guidano il cambiamento politico e sociale del continente. 
È il momento di darsi da fare?

Proprio questo mi ha chiesto Papa Francesco il 19 marzo, giorno di san Giuseppe, quando ho avuto la possibilità di condividere più di un’ora del suo prezioso tempo nella casa di Santa Marta. Abbiamo parlato molto. Bisogna darsi da fare, mi ha ripetuto più volte. Credo sia proprio questo il compito della nostra generazione: cercare la strada giusta per avere un mondo più equo e più giusto. I diritti sono la base della convivenza tra i popoli e la pena di morte è la loro negazione. Più che mai bisogna sostenere l’abolizione della pena capitale, poiché solo un forte impegno permetterà un giorno di vederla scomparire.

Da pag. 4 de “L’Osservatore Romano di domenica 22 marzo 2015

Commenti