Sfruttamento sul lavoro
L’ora del bilancio sociale d’impresa
di Gianni Epifani, sacerdote rogazionista,
giornalista e regista della Santa Messa di RaiUno
Esistono i prodotti DOC, quelli non testati sugli animali
o che rispettano l’ambiente, e da consumatori responsabili
cerchiamo sempre, sulle relative confezioni,
i bollini o le diciture che lo comprovino.
Così possiamo comprare beni
che abbiano certe caratteristiche,
rispettose del mondo in cui viviamo
o indicative di salubrità.
Non esiste invece, o almeno non diffusamente,
un contrassegno di responsabilità etica e sociale,
che garantisca il rispetto
– da parte delle imprese produttrici –
anche dei diritti umani e del lavoro.
Un’azienda non ha solo profitti da realizzare
e un bilancio economico da fare,
ma deve alla collettività
– sul cui stile di vita il suo operato impatta,
posto che non sono solo beni che vengono prodotti,
ma anche significati – un bilancio sociale.
Vale a dire che deve rispondere
del proprio modo di fare impresa.
E questo non significa solo garantire
il rispetto dell’ambiente,
delle norme anti OGM e via discorrendo,
ma significa – o meglio, dovrebbe significare –
attestare e rendicontare la moralità
della propria performance nella gestione del personale.
Di bilancio sociale si parla ormai da molti anni,
con esiti e profili diversi da Paese a Paese.
E qualche frutto, del tanto parlarne
e delle tante sperimentazioni, gruppi di studio,
progetti e norme sull’argomento, si è visto.
Così, grazie a queste nuove sensibilità –
nate in Inghilterra già negli anni 30 dello scorso secolo –,
oggi abbiamo certificazioni e correlati marchi
che testimoniano l’impegno ecologico di molti imprenditori
e il loro rispetto per la salute dei consumatori.
Ma non è sufficiente.
Quello che ancora manca
e che andrebbe imposto per legge,
se la coscienza delle imprese non ci arriva spontaneamente,
è la rendicontazione etico-sociale
sui profili afferenti ai diritti delle persone.
Chi opera sui mercati dei beni e servizi
dovrebbe garantire ed essere obbligato a certificare
che ciò che produce è stato ottenuto
senza far ricorso al lavoro minorile,
rispettando i diritti umani e professionali dei lavoratori,
garantendo loro un orario e condizioni di impiego congrui,
una retribuzione che sia, come recita la nostra Costituzione,
ma anche quelle di tanti altri Stati,
“proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro
e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia
un’esistenza libera e dignitosa”.
Sarebbe un modo per assicurare trasparenza,
per permettere a noi consumatori di escludere dal mercato
chi produce sfruttando le persone,
chi fa ricorso a forme squallide di schiavitù
per il proprio profitto,
chi calpesta i più elementari diritti umani.
È inaccettabile che ancora oggi,
in una società che si professa matura, libera e rispettosa,
si consumino crimini come quello del caporalato.
Vogliamo imprese eticamente responsabili
a trecentosessanta gradi,
che accantoal perseguimento del proprio interesse,
contribuiscano a migliorare la qualità della vita
della società in cui operano e grazie alla quale esistono.
È un nostro diritto;
è un loro dovere.
Gianni Epifani
Commenti
Posta un commento