ANTONIO LIGABUE
Gualtieri è come te la aspetti: immersa nella nebbia, il Po che scorre a fianco, oltre gli argini.
La splendida piazza porta ancora il segno dell’ultima esondazione. Quando il Po spinge troppo aprono gli argini da questo lato. Se li aprissero a Guastalla l’acqua arriverebbe fino a Ferrara.
Devo andare a Padova ma ho deciso di regalare alla mia anima tre ore di bellezza: qui e poi a Brescello, ho un debito di riconoscenza verso Guareschi e i suoi personaggi.
Giro nella piazza, mi avvicino al municipio. La mostra su Antonio Ligabue è chiusa da un mese. Qualcuno ha aggiunto un foglio A4 da stampante d’ufficio: PROROGATA.
Ma dai! Che regalo! Apre alle 10, mancano venti minuti. Vedo arrivare due classi di bimbi della scuola dell’infanzia. Meglio precederli. Salgo lo scalone, mentre aspetto leggo la biografia. L’immagine di Ligabue troneggia in fondo alla sala. Leggo, sono assorbito. Scosso.
Sì, certo, qualcosa del Ligabue la so anch’io, ricordi d’infanzia. Il pittore matto, le sue notti passate nei boschi, i quadri possenti, gli animali… Carino, niente di più.
Leggo la presentazione alla mostra, la biografia. Una mostra ogni dieci anni, in attesa di far nascere un museo permanente qui a Gualtieri. Bene. Poi scopro un mondo, il suo.
No, non è di Gualtieri, Antonio Leccabue (questo il nome corretto). E’ svizzero, di madre italiana e padre sconosciuto. Poi la madre si sposa con un tale che riconosce anche il neonato e gli dà il cognome. Ma la convivenza fra Antonio e il nuovo papà non è semplice, e nemmeno il rapporto con la mamma che si concentra sui suoi nuovi figli. E poi la miseria. Così Antonio viene affidato ad una anziana famiglia senza figli, tedeschi. Poveri anch’essi. Un delirio. Antonio avrebbe bisogno di affetto e cibo. Non ha né l’uno nell’altro, crescerà secco e malato, afflitto da rachitismo e con una rabbia devastante che esce continuamente: a scuola, con la sua famiglia adottiva. Non ci sono gli strumenti per capire, solo coercizione: lo mettono in un collegio (religioso!) da cui viene continuamente espulso, “incorreggibile”, è la sentenza.
Cerca la madre naturale che lo evita. Morirà, da lì a poco, insieme ai tre figli, intossicati da carne avariata. Non riesce, da adolescente, a trovare un lavoro. Poi la madre adottiva, un fulmine di intelligenza, pensando di fare una furbata lo denuncia al Comune, così almeno faranno qualcosa. La faranno. Non vedevano l’ora di sbarazzarsi di quella testa calda: Antonio viene espulso dalla Svizzera. Quando arriva al confine italiano, non sanno che farsene. Scoprono che il padre adottivo è di Gualtieri, lì viene mandato, dopo qualche permanenza in manicomio, visto che non sanno dove metterlo. Così Antonio Leccabue, detto Ligabue, arriva in Italia per la prima volta, in una terra mai vista, senza parenti, mantenuto dal comune di Gualtieri che, anch’esso, non sa che farsene. Cercherà più volte di sfuggire in Svizzera, senza mai riuscirvi. Fa il portatore di carriole per portare la terra sugli argini, vive nel bosco, è selvatico. Quando ha una crisi lo ricoverano in manicomio. Poi inizia a dipingere.
Il resto lo conosciamo. La sua “scoperta” nel dopoguerra, la fama, la ricchezza.
Quando ha i soldi compra due auto con autista. Gli manca una donna, la cerca invano. Per tutti è il matto. Morirà in manicomio, ancora. Una sfinge di dolore. Un monumento vivente all’incomprensione.
Mi siedo un attimo. I bambini sono entrati e fanno caciara, bene come la sanno fare solo i bambini.
Ho un peso sullo stomaco, un macigno. Antonio Leccabue mi fissa diritto negli occhi, col suo sguardo febbrile. Non so se ho il coraggio di salire a vedere. Vado. Manca un quarto d’ora, l’assonnata bigliettaia dice che posso entrare lo stesso. Sono solo nella grande stanza di rappresentanza del castello.
Scorro davanti ai quadri, vedo con attenzione, guardo con l’anima. Il dolore ora è costante. Mio e di Antonio. Un dolore cristallizzato, reso immortale dall’arte. E lo vedo in ogni pennellata.
Rappresenta due soli soggetti: gli animali, e lui.
Ma, nella stragrande maggioranza dei casi, sono animali che combattono fra loro. giaguari circondati da ossa, serpenti che attaccano, cani che mordono.
Poi lui, Antonio, rappresentato in mille modi, in mille sguardi e pose, senza paura di dipingere lo sfacelo interiore, la follia evidente. Trovo un’assonanza con alcuni autoritratti di Van Gogh. Spero che la farfalla che compare in alto a destra sia una qualche consapevolezza di speranza.
Finisco il giro, mi tremano le gambe.
Che regalo. Che meditazione. Che emozioni.
Sì, la vita è così, una battaglia, una lotta per la sopravvivenza, la ricerca di sé possibile solo se troviamo altri in cui specchiarci, altri che ci amino. Così Antonio Leccabue ha cercato uno specchio nella sua vita, ma gli hanno rimandato sempre e solo la sua immagine di folle e, infine, ci ha creduto anche lui.
Da pochi giorni l’Europa si è risvegliata dal sonno della ragione, ha visto la sua immagine riflessa, debole, confusa, fragile. Speriamo ritrovi un’anima, oltre la retorica.
Ci sono persone mandate dall’alto per diventare profeti, per richiamarci tutti al vero che è.
Anche se sono presi per folli. Forse sono solo più consapevoli.
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