L’AMORE NON LASCIA LIVIDI

di Emanuela Bambara

“Pensavo fosse amore.
Un amore smodato, unico, assoluto, come la violenza che usava,
quando mi tirava per i capelli, mi gettava sul letto e mi picchiava,
urlandomi addosso gli insulti più umilianti per una donna”.
Anna ha 60 anni, gli occhi di una ragazza.
Ha l’età del suo cuore quando si è fermato,
anche se ha continuato a battere,
ucciso dal dolore e dalla delusione di un amore acre come il sangue
che le ha fatto versare, sempre più amaro,
man mano che la vita passava, la violenza del marito invece no.
Per più di trent’anni....


“I primi tempi, avevo gli occhi neri e gonfi e qualche graffio
facilmente mascherabile, con un po’ di cipria e un sorriso di circostanza”, racconta. 
Poi, con l’avanzare dell’età, i danni sono diventati
sempre più evidenti, e non soltanto quelli fisici.
Un polso rotto, una caviglia slogata, la stanchezza cronica,
pianti improvvisi e la paura di prendere anche le decisioni più piccole,
e quelle più grandi, più giuste, come la scelta di separarsi.
“Gli chiedevo soltanto di abbassare la voce, mentre mi picchiava,
per non fare sentire a nostro figlio. Aspettavo che qualcosa cambiasse”.
Ha aspettato più di trent’anni, 31, e un figlio diventato uomo adulto.
Ha aspettato di essere anziana abbastanza
da non sentirsi più pienamente e fragilmente donna.
“Il mio dovere l’ho fatto, adesso posso pensare alla mia serenità.
Volevo che mio figlio non soffrisse,
che avesse una famiglia normale, con i genitori in casa”, dice.
Non era normale, però, quella famiglia.
Non è un caso isolato, Anna, purtroppo.
“Per la maggioranza delle donne che si rivolgono al nostro centro,
si tratta di violenze reiterate negli anni e continue.
Alcune hanno il coraggio di liberarsi presto, moltissime altre, invece, 
aspettano tanto tempo, anche decenni.
Ci sono donne che ammettono di essere vittime di violenza domestica 
soltanto in età avanzata, quando davvero non ce la fanno più”,
riferisce la sociologa Francesca De Masi,
presidente della Cooperativa “Be Free”,
che gestisce il Centro antiviolenza di Roma Capitale.

Il Lazio, con l’Emilia Romagna, registra il primato nazionale
di violenze e abusi sulle donne: riguarda oltre
il 38 percento della popolazione femminile.
In Italia, secondo gli ultimi dati Istat, poco meno di 7milioni di cittadine,
una donna su tre, tra i 16 e i 70 anni,
subisce maltrattamenti, nove volte su dieci
da parte del marito o convivente,
più di una su tre in famiglia.
Anche madri che subiscono abusi o angherie da parte dei figli.
I casi denunciati sono soltanto un terzo,
scendono al 7percento per le vittime in casa.

“Il maltrattamento è un reato – continua De Masi –
che comprende varie forme di violenza:
fisica, psicologica, verbale, sessuale, economica, culturale”.
Per la sociologa, la principale causa è “una cultura maschilista,
possessiva e predatoria, che considera la donna oggetto di proprietà”.
Frasi come: “Sei mia e faccio quello che voglio”,
“Con me o con nessuno”, sono il segnale
di un modo di intendere il rapporto tra i sessi.
Non è da sottovalutare che oltre il 60 percento degli stupri
siano commessi da partners attuali o precedenti.

È un fenomeno trasversale alle classi sociali, all’età,
al grado di istruzione e alla posizione economica.
La forma più subdola è la violenza psicologica,
che si esprime come dominio mentale, manipolazione e umiliazione
della dignità femminile, controllo delle altre relazioni affettive, 
gelosie ossessive. I violenti sono spesso “imprevedibili”:
“uomini di successo, altoborghesi, con posizioni sociali di prestigio,
stimati in pubblico, facoltosi, si rivelano orchi
dopo aver chiuso la porta di casa sul resto del mondo”,
afferma De Masi.

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità,
la violenza tra le mura domestiche è un problema di “salute pubblica”,
non soltanto giuridico. Si tratta – dichiara l’Oms –
di “un tipo di violenza silenziosa e invisibile,
che gli stessi sistemi giudiziari tendono a trattare
non come reato ma come ‘questioni private’”.

È proprio il considerare la violenza domestica un “affare privato”
il principale motivo deterrente alla denuncia e alla liberazione.
Spesso le donne non sono supportate
da una rete sociale e affettiva di sostegno.
Dal rapporto “Rosa Shocking” presentato la settimana scorsa a Roma
al Senato della Repubblica dall’associazione “We World Onlus”
risulta che il 35 percento degli italiani ritiene
che sia una “questione di privacy”,
che debba rimanere “dentro le mura di casa”.
I più “indulgenti” sono i giovani sotto i 35 anni.
Il 45 percento degli intervistati si sono espressi in favore delle vittime femminili, 
mentre il 20 percento hanno mostrato comprensione per l’uomo violento, 
attribuendo alla donna la colpa della “provocazione”.

Basta poco, però, per provocare la violenza.
Una frase, uno sguardo, un movimento, il silenzio, l’immobilità.
“Quando ero più giovane, a volte era un rossetto troppo rosso
o un vestito troppo corto, lo sguardo ammirato di un passante,
il tono stanco nel rispondere al saluto quando tornava da lavoro,
un sorriso a metà che gli sembrava ironico,
la casa disordinata o la mia presunta mania igienica,
se ero stanca o se apparivo troppo allegra”, racconta Anna.

La prevenzione comincia qui: nel contrasto al pregiudizio
che la vittima sia una “provocatrice” e, insieme,
che un grande amore possa esprimersi come violenza.
La presidente del Centro comunale antiviolenza di Roma
lancia un appello alle Istituzioni: “Bisogna aiutare le donne
che vogliono uscire da una situazione di sopraffazione,
sul piano psicologico, giuridico-legale, economico e sociale,
anche con progetti di inserimento al lavoro”.
L’investimento finanziario per attività di accoglienza, 
prevenzione e contrasto sono stati, invece, ridotti, nel 2014, 
rispetto al 2013, da 16milioni di euro
a 14milioni.
Uno schiaffo alle dichiarazioni di buone intenzioni
in difesa dei soggetti deboli, violati da un malinteso amore............

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