La storia vera di un giovane uomo raccontata da Ilaria Nava in “Volevo dirgliene quattro”
“All’inizio volevo dirgliene quattro…poi ho capito che Lui ‘carica’ la croce su chi può sopportarla (anche se ne facevo a meno) quindi gli ho affidato tutto me, il piccolo e Anna”.
Alla soglia dei trent’anni Filippo ha apparentemente realizzato gran parte dei sogni, o se si vuole, dei progetti, tipici di quell’età: un ruolo nella vita associativa all’interno dell’oratorio, uno nel futuro professionale, con gli studi in Ingegneria civile e l’inizio dell’attività lavorativa, uno, anzi due, per tutta la vita: l’amore e il matrimonio, l’arrivo di un figlio. Prima dell’arrivo dell’erede giunge però una notizia che sembra assurda, persino beffarda: una grave malattia minaccia la sua vita. La notizia demolirebbe molti. Non il protagonista di questa storia vera raccontata da Ilaria Nava in “Volevo dirgliene quattro” (San Paolo, 120 pagine). Filippo è molto arrabbiato con il buon Dio, e, come nel titolo, vorrebbe “dirgliene quattro”, perché quella tremenda notizia sembra far precipitare nel non senso tutta la vita, quella sua, della moglie, del figlio in arrivo. Se c’è un rischio in agguato, oltre alla sofferenza fisica e psichica, questo è rappresentato infatti dal tarlo del sospetto: sospetto della vanità di tutto, come direbbe Leopardi, anche e perfino della fede. Perché una comunicazione del genere, fatta in una fredda stanza di un freddo ospedale, rimette in gioco ogni cosa. Quella notizia assume le inquietanti spoglie del dubbio, della resa alla materia, del tradimento di ogni speranza terrena, infine della inutilità di quella fede instillata ai ragazzi dell’oratorio con tanta fatica e con tanta passione. Ma c’è qualcosa che può aiutare, qualcosa che ci rende capaci di sostenere una durissima battaglia e di ritrovare il senso di ogni cosa.
La battaglia non è combattuta in solitudine: la grande prova conferma anzi la giustezza della scelta radicale di vivere la vita assieme ad una persona e svela l’amore degli altri, quasi a ricambiare quell’amore profuso per il prossimo quando Filippo stava bene. I “suoi” ragazzi dell’oratorio, i colleghi, perfino le vecchie amicizie che avevano scelto strade diametralmente opposte gli si stringono intorno. Una sua antica conoscenza, -”sono agnostico”, confessa- ammette la sua ammirazione per come Filippo ha saputo affrontare tutto questo nel modo che non sveleremo per lasciarne la libertà al lettore, e scriverà rudemente, ma soprattutto affettuosamente, che Filippo è “un fottuto eroe”.
Questa non è solo la storia di una battaglia contro la malattia, ma anche un piccolo monumento a quello che Manzoni, Chesterton e Peguy considerano l’eroismo vero: il quotidiano lottare per tirar su una famiglia sfuggendo alle pose eroiche, scomparendo per lasciar posto agli altri: i figli, i giovani che ci vengono affidati a qualsiasi titolo, il prossimo.
“Volevo dirgliene quattro” è l’epopea quotidiana combattuta anche all’interno della propria famiglia che si sfascia, che ti rompe qualcosa dentro e rischia di consegnarti alla disillusione permanente: “Anna, se non ce l’hanno fatta loro, anche noi falliremo” dice Filippo alla fidanzata riferendosi alla separazione dei genitori che rischia di diventare una nefasta ipoteca per il futuro dei figli. Quella di Filippo è l’eroica guerra contro la banalizzazione degli affetti per provare in prima persona la fedeltà alle promesse del matrimonio: “Le ho regalato un viaggio per la vita” risponde, alludendo all’anello di fidanzamento comprato ad Anna, ad un amico che gli chiede se ha donato una crociera alla fidanzata.
La storia di Filippo è la storia di chi lotta per dimostrare con il proprio esempio, non con le parole, che non è vero che oratorio, fidanzamento, matrimonio, figli, dolori e piaceri domestici hanno fatto il loro tempo. E soprattutto è la storia di un agonista vero, che si batte senza odio contro le forze del male che vorrebbero fiaccare il suo corpo, la sua anima e tutto il mondo in cui egli aveva riposto la sua gioia e il suo sì alla vita.
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