Propongo ad alcuni gruppi di giovani coppie, una serie di riflessioni sul tema della Misericordia evangelica, prendendo spunto da alcuni brani della Scrittura e rileggendo le tradizionali «opere di Misericordia». Le metto a disposizione anche qui, pensando possano essere utili a molti in questo anno giubilare dedicato in modo speciale a questo tema.

Ascolta la registrazione dell’intervento:
Per scaricare il pdf del testo clicca il pulsante in alto a destra.

( Per scaricare il pdf del testo: http://www.labottegadelvasaio.net/2015/12/23/misericordia-dar-da-mangiare-allaffamato/?utm_source=La+Bottega+del+Vasaio&utm_campaign=a00e2d9a63-8_gennaio_20161_7_2016&utm_medium=email&utm_term=0_b112b6fa5c-a00e2d9a63-206361941)
Il pericolo sempre in agguato quando ci si dispone a riflettere sulle pratiche cristiane o quando si cerca di spiegarle in modo dettagliato è quello di scadere nella didascalia o nella retorica. Una pratica di Misericordia come la prima delle sette corporali, oltretutto, si presta particolarmente a considerazioni di carattere moralistico o a letture di inclinazione buonista.
Per evitare questo pericolo, proviamo ad affrontare il tema del nutrire chi non ha il necessario costruendo un rapido sfondo biblico (rapido per necessità, perché si tratta di un tema vastissimo nelle Scritture) che ci offra, se non il dettaglio materiale dell’opera di carità, certamente la sua prospettiva di significato più autentica e profonda.
Lo faremo con una premessa anticotestamentaria e due passaggi evangelici, concludendo con una lettura sintetica e tre spunti per l’applicazione personale.
È necessario tenere presente che l’idea di Misericordia divina che fa da sfondo a questo ciclo di riflessioni non coincide con il mero concetto di «perdono», bensì si allarga ad abbracciare tutte le opere che Dio compie nella storia degli uomini e che sono riconducibili, in un modo o nell’altro, a una dinamica di liberazione da qualsiasi forma di oppressione e schiavitù o a un intervento rivivificante e rigenerante nei confronti di chi si trova in qualunque circostanza mortale. 




Le origini: un giardino di abbondanza.

Nel giorno in cui il Signore Dio fece la terra e il cielo nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e non c’era uomo che lavorasse il suolo, ma una polla d’acqua sgorgava dalla terra e irrigava tutto il suolo. Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire”. (Gen 2, 4b-9.15-17)
Il brano del secondo racconto di Genesi è complesso e ricchissimo di immagini e sfumature di significato. Raccogliamo qualche elemento utile alla riflessione che ci siamo proposti.
Il Creatore prende l’iniziativa ponendo in essere ogni cosa: Egli è l’origine di ogni cosa, la sorgente di una vita che dona con abbondanza e senza soluzione di continuità.
Dalla sua azione creatrice emergono l’umanità e il resto del creato, ma Dio istituisce non solo dei soggetti bensì delle relazioni tra di essi, che costituiscono il “canale” attraverso cui la Sua volontà di vita continua ad essere e a realizzarsi, a patto che siano vissute attraverso modalità precise e specifiche, da Lui stabilite.
Il racconto lo tratteggia molto bene: la terra senza la pioggia e il lavoro dell’uomo non produce frutti; l’uomo viene collocato in un giardino destinato al suo sostentamento; l’umanità deve custodire il creato conducendolo a una crescente abbondanza.
La vita donata da Dio scorre in quel trittico di relazione a patto che si stabiliscano rapporti di reciproco servizio e cura: l’abbondanza del creato è a favore dell’uomo; l’umanità è chiamata a custodire la terra nella sua bellezza e ricchezza. Il tutto, all’interno del riconoscimento del Creatore quale unica sorgente di vita.
Così mentre il Creato è per l’umanità il segno perenne della volontà di vita da parte di Dio e l’uomo per il Creato il tramite della cura di Dio, entrambi sono per Dio lo spazio dell’espressione e del divenire del Suo essere «Dio della Vita».
La terna di relazioni è un movimento di uscita verso l’altro da nutrire e da cui farsi nutrire, in cui il nutrirsi viene sempre ricollocato come azione relazionale e mai individuale.
Il tema è «generare»: le relazioni tra i tre devono essere vissute nella prospettiva del generare vita, nell’altro, per l’altro, con l’altro. Anche nel ricevere in dono il creato, anche nel fare del creato il proprio nutrimento, l’uomo è chiamato a farlo nella prospettiva del «generare vita», in un modo o nell’altro.
A governare il funzionamento del circolo di rapporti vitali viene posto un limite, anche questo, non a caso, di genere nutritivo: se l’uomo può mangiare dell’albero della vita, non può mangiare quello della conoscenza del bene e del male.
Senza entrare nel dettaglio dell’analisi basti questo: il divieto è un segno preciso della creaturalità dell’uomo che non va violata e che non bisogna presumere di poter superare.
La voracità dell’uomo deve essere dunque regolata: l’uomo non può prendere tutto, non può avere tutto da sé, non può consumare subito qualsiasi cosa desideri. Superarlo significa rompere quel circolo di relazioni di cui sopra, spezzare la dinamica del nutrire – farsi nutrire, chiudendosi in un solipsistico nutrirsi.
È l’arroganza dell’autosufficienza: esisto io senza Dio e, in un un certo qual modo, anche senza il creato che sparisce come “soggetto di relazione” ed esiste solo come strumento.
Rotto l’equilibrio, ecco le conseguenze descritte nel successivo racconto della caduta originaria.
Bastano queste osservazioni per dare al compito di sfamare il bisognoso un’orizzonte e uno spessore che vanno ben al di là della pia pratica da buon credente.
Affrontare la questione del nutrire e lasciarsi nutrire significa mettere a tema il rapporto con Colui che dà la vita e con ciò che è segno del Suo continuare a dare vita; vuol dire richiamare la vocazione tutta umana ad essere a servizio della vita, dentro una struttura antropologica dal carattere relazionale e dunque sociale; significa ricordare il compito fondamentale dell’assumere la propria identità di creatura come cornice in cui collocare intelligenza, volontà, libertà, affetti, desideri, bisogni, possibilità.
Nell’esperienza di Gesù vediamo realizzarsi in modo compiuto la sintesi di questo lasciarsi nutrire e nutrire.




«Di’ che queste pietre diventino pane» – «Dacci oggi il nostro pane quotidiano»

Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: “Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane”. Ma egli rispose: “Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio “. (Mt 4, 1-4)
Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano. (Mt 6, 9-11)
La sostanza delle tentazioni è la messa in discussione dell’identità profonda di Gesù. Quello che c’è in questione è il suo rapporto unico con il Padre e, a partire da esso, il suo rapporto con i fratelli e con il creato.
Il pericolo di vita che la fame comporta gli pongono in modo radicale la questione del come stare in quelle relazioni, con una domanda che nella sostanza può essere questa: «Nel momento in cui ne va della vita, come decidi di te stesso? Cosa ne fai del mondo? Chi è il Padre per te? Chi sono gli altri fratelli?».
L’invito a trasformare le pietre in pane è la stessa tentazione del serpente: superare il limite creaturale negandolo e avendo la pretesa di darsi vita da sé. Accettare significherebbe prescindere dal Padre, asservire il creato rovesciandone le leggi, rigettare la dimensione conviviale, culturale e sociale del nutrimento che il pane, in quanto prodotto del lavoro dell’uomo porta con sé, rappresenta.
È la tentazione della voracità assoluta, dell’autosufficienza arrogante e narcisa, l’egoismo totale che non teme di snaturare le cose pur di asservirle al proprio bisogno. Se il nutrimento, stando a Genesi, dice del rapporto con il mondo, con l’altro e con Dio, cedere vorrebbe dire rompere la comunione con ciascuno di questi soggetti e dunque negare perfino il proprio essere in relazione.
Il Nemico cerca di togliere al farsi nutrire e nutrire la cornice di significato costituita dalla relazione con il Padre, dando al nutrimento, preso da sé e in quanto tale, il volto della salvezza. La risposta di Gesù va, ovviamente nella direzione opposta.
La preghiera del Padre nostro, che è una testimonianza del modo in cui Gesù stava davanti al Padre suo completa il quadro: il chiedere e ricevere nutrimento dalle mani di Dio, il prendere cibo con la consapevolezza che è dono Suo, considerarlo immediatamente come “nostro” e non “mio” è la resa concreta del santificare il nome, del Regno che avviene, del compiersi della volontà divina.
Nel nutrire, farsi nutrire c’è l’accadere del Regno con la ricostruzione della familiarità originaria: la Misericordia di Dio all’opera che ridà vita, passa proprio lì. Questo è il Regno che avviene: il Padre continua a riversare abbondanza sugli uomini che sono chiamati a riconoscerLo come sorgente di vita quotidiana – «dacci oggi…» – e vivere il dono nella prospettiva che ognuno – «nostro pane» – abbia di che vivere.
In questo senso, «dar da mangiare all’affamato» è anzitutto una restituzione del maltolto – quel necessario dovuto a tutti – e insieme un atto di fede nel Regno, in quella volontà divina che ognuno abbia vita e che chiama a collaborare perché nessuno muoia.
Ciò che Gesù vive in prima persona, lo chiede, in modo determinato e chiaro, anche ai suoi discepoli attraverso delle istituzioni.




«Date loro voi stessi da mangiare» «Prendete e mangiatene tutti»

Sul far della sera, gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: “Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare”. Ma Gesù disse loro: “Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare”. Gli risposero: “Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!”. Ed egli disse: “Portatemeli qui”. (Mt 14, 15-18)
Ora, mentre mangiavano, Gesù prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e, mentre lo dava ai discepoli, disse: “Prendete, mangiate: questo è il mio corpo”. (Mt 26, 26)
Nella moltiplicazione dei pani, vediamo i discepoli ancora distanti dalla logica del Padre nostro: chiedono di sciogliere l’assemblea, di prendere le distanze dalla gente, di rompere i legami («congedali», letteralmente: slegali da noi).
Ragionano per logiche commerciali («vadano a comprarsi da mangiare») e assecondano l’ingiustizia esistente di chi avrebbe mangiato molto e chi niente.
Gesù ribalta la situazione e istituisce dei rapporti nuovi: c’è un generare l’altro, dare vita all’altro, sostenere l’esistenza altrui a cui si è costantemente chiamati, direttamente e in prima persona. È il lavoro di Dio, è il lavoro di coloro che sono a sua immagine e somiglianza, di coloro che «cercano il Regno di Dio», il suo modo di operare nella storia. Se si vuole essere “figli del Padre” occorre operare come il Padre.
Nel chiederlo Gesù non pretende il banale, autosufficiente e peccaminoso superamento del limite che i discepoli dichiarano (sarebbe come trasformare le pietre in pane), chiede altro: la consegna, al Padre per mezzo di lui, del limite, cioè dell’incapacità di nutrire in modo autosufficiente, perfetto e compiuto. Ai discepoli è chiesto di accogliere l’invito a nutrire, dentro il limite di non saper soddisfare l’invito, nell’accettazione di non saper pienamente sfamare l’altro.
Nell’accettazione e consegna del limite si ristabilisce il circolo di relazioni fondamentale – Dio, l’umanità, il creato – e Dio prende il posto che gli spetta: colui che dà la vita con abbondanza all’uomo che, nel limite, a Lui si consegna, insieme al creato.
L’altro diventa, attraverso tutto questo, pienamente e totalmente “familiare”: nel nutrire l’altro in prima persona, consegnandosi alla forza del Regno, il prossimo diviene realmente fratello, sorella, padre, madre, figlio, figlia.
E, tutti – tutti! – furono saziati: riecco il giardino dell’abbondanza che fiorisce dentro un’economia di relazioni familiari nuova.
L’istituzione eucaristica è il punto d’approdo di tutto il percorso e, insieme, lo sfondo definitivo per comprendere il «dar da mangiare all’affamato». Nel sostenere la vita con il nutrimento c’è, da parte di Dio, la dichiarazione di volontà del suo volersi donare interamente in una comunione senza mezze misure.
La volontà di vita da parte di Dio nei confronti dell’uomo, con l’Eucaristia diviene senza condizioni. L’Eucaristia dà, come prospettiva del nutrire-nutrirsi-farsi nutrie, il tema del dare vita all’altro e contemporaneamente del giungere a dare la vita per l’altro.




Spunti di riflessione

Affamato: colui che cerca vita, che spera vita, che attende vita. Intesa nel senso più ampio e più profondo dell’espressione, partendo dagli elementi fondamentali – come il cibo – ma sapendo che la loro assenza riconduce a domande di altro spessore e di altra portata.
Sfamare: deve essere sinonimo di generare. Pensare di poter vivere la Misericordia significa avere nei confronti della realtà un atteggiamento generativo. Significa lasciarsi generare e generare senza sosta, stabilire con la realtà intera un rapporto attraverso il quale favorire la vita dell’altro e, all’interno del quale, sperimentare che nel dare vita la mia stessa vita è favorita.
Questo andrebbe preso come categoria sintetica dell’essere in relazione, di qualsiasi relazione si tratti.
Questo sfamare l’affamato, così inteso, diventa lo spazio stesso dell’esperienza di Dio, al punto tale che – davvero – anche offrire o farsi offrire un caffè è esperienza della Sua Presenza.
Tre elementi possono essere utili come cartina di tornasole per comprendere se siamo nella prospettiva che abbiamo descritto oppure no.
1.Il Limite.
Accettare l’incapacità di soddisfare l’altro e accettare l’impossibilità che l’altro mi soddisfi, in modo definitivo e risolutivo; assumere la consapevolezza che non potrò salvare l’altro e che l’altro non mi potrà salvare. Questo chiede un «dar da mangiare all’affamato» che intende porsi a servizio di una Vita da generare nell’altro.
Nel concreto questo si traduce spesso nel restare con pazienza dentro le contraddizioni delle relazioni e delle condizioni in cui le relazioni avvengono. Questo è lo spazio in cui più efficacemente si fa l’esperienza della grazia, dentro la relazione.
2.La Voracità.
Il rispetto dei tempi, dei modi e, soprattutto, dei “fini” ai quali le persone e le cose sono destinate è un elemento chiave che deve guidare l’impegno a sfamare l’affamato.
Nei fatti è la rinuncia al narcisismo, allo specchiarsi nella propria immagine restando invece in continua uscita verso l’altro. È la rinuncia all’asservimento dell’altro.
3.La Reciprocità.
Le relazioni impostate in senso evangelico non possono concepirsi come relazioni “a senso unico”. Persino il farsi nutrire da Dio va compreso nella dimensione della reciprocità, quella di un mutuo dono e di una mutua accoglienza. Anche qualora ci si trovi a doversi offrire a chi ci rifiuta, occorre comprendere quel gesto in una logica di scambio mutuo: dall’altro ricevo lo spazio della mia gratuità.
Non si può concepire relazione che traduca quell’orizzonte biblico che abbiamo riletto e che non sia nella forma di una reciprocità effettiva.

Commenti