Dalla Messa domenicale alla dimensione eucaristica della vita
Una liturgia che umilia chi non ha niente
Ogni comunità cristiana che ha a cuore l’autenticità della sua prassi eucaristica, leggendo la pagina paolina dovrebbe domandarsi: «Siamo come la chiesa di Corinto? Con la nostra liturgia umiliamo chi non ha niente?». I cristiani di Corinto mostrano di non comprendere il legame che esiste tra l’eucaristia e l’etica cristiana. L’eucaristia è la fonte di ogni agire morale perché essa rende coloro che la celebrano partecipi dell’ethos di colui che in essa opera: il Cristo che «da ricco che era si è fatto povero per voi» (2Cor 8,9).
Cristo, il povero di Dio, che ha detto di sé «ho avuto fame, ho avuto sete, ero nudo, forestiero, carcerato» (cf. Mt 25,31-46). Per questo la liturgia dei cristiani è la liturgia del Povero, ossia la liturgia che manifesta un’etica di donazione (un corpo dato), un’etica di condivisione (l’unico pane per molti), un’etica di solidarietà e di carità (la colletta per i bisognosi). È dunque necessario riconoscere che le nostre liturgie sono sempre esposte al rischio di umiliare i poveri. Nel cristianesimo non c’è altare del Signore che non sia al tempo stesso memoria dell’altare che è il fratello.
Per questo, la Didascalia comanda ai cristiani: “Le vedove e gli orfani saranno per voi come un altare”16, mentre Giovanni Crisostomo, con sorprendente realismo, ammonisce: “Ogni volta che vedete un povero che crede ricordatevi che sotto i vostri occhi avete un altare, non da disprezzare ma da rispettare”17. Questa consapevolezza cristiana del rapporto essenziale tra altare e povero trova la sua più alta epifania nell’eucaristia.
Se l’amore per i poveri è liturgia, ogni chiesa locale è costantemente chiamata a vegliare affinché la sua liturgia resti fedele allo spirito della riforma liturgica del Vaticano II che ha cercato di attuare, nelle forme e nello stile, la volontà espressa dal concilio nella costituzione sulla liturgia: «I riti splendano per nobile semplicità»18. Non ci si lasci dunque trarre in inganno da chi mostra nostalgia di uno stile liturgico che manifesti opulenza, fasto e ostentazione, nella vana illusione che siano queste le uniche forme capaci di manifestare sacralità e narrare lo splendore di Dio.
Nel Discours de la nature et des effets du luxe (Discorso sulla natura e gli effetti del lusso), un autore del XVIII secolo scriveva: «Il lusso è prodigo, ma sempre per ostentare mai per dare»((11)). Al contrario, la «nobile simplicitas» voluta dal concilio nella liturgia esprime la volontà di dare, di condividere, perché la semplicità della liturgia cristiana è questione etica e, in quanto tale, questione teologica. La liturgia è infatti opus Dei, è l’agire di Dio attraverso Cristo nello Spirito santo. Per questo nella liturgia la forma è sostanza!
Se lo stile dell’agire di Gesù non è mai giunto a «umiliare chi non ha niente», la liturgia di Corinto invece umiliava il povero, escludendolo dall’abbondanza dei ricchi. Se ci può essere un modo di celebrare l’eucaristia che esclude il povero, c’è anche un modo semplice di celebrare la liturgia grazie al quale il povero non è escluso, ma si sente accolto e si trova a suo agio. E qui parliamo del povero non solo materialmente povero, ma anche moralmente, spiritualmente, umanamente povero.
All’opposto esatto di ciò che avviene nella cena eucaristica di Corinto, l’assemblea liturgica cristiana è il luogo dove il povero (non solo economicamente ma anche moralmente povero, spiritualmente e umanamente povero) deve essere accolto, riconosciuto e perfino onorato. Questa accoglienza non si esaurisce certamente in una semplice questione di posti da assicurare per tutti, ma è una accoglienza che si esprime nello stile stesso della celebrazione. Uno stile semplice e tuttavia nobile, che narrando la bellezza di Dio non umilia la povertà del povero.
Nell’Evangelii gaudium papa Francesco dedica un intero paragrafo alla “mondanità spirituale” e ci mette in guarda in modo molto chiaro, affermando: “Questa oscura mondanità si manifesta in molti atteggiamenti apparentemente opposti ma con la stessa pretesa di ‘dominare lo spazio della chiesa’. In alcuni si nota una cura ostentata della liturgia” (n.95)
La nobile semplicità è l’esatto contrario della “cura ostentata della liturgia” denunciata dal papa. Parlare di una liturgia semplice non significa in nessun modo cedere a una liturgia sciatta, trascurata e per questo inespressiva, figlia di un pauperismo certamente non cristiano. La bellezza semplice della liturgia deve essere invece ricercata con impegno e fatica, fino a rappresentare un punto di arrivo agognato.
La semplicità è sempre un punto di arrivo e mai di partenza, perché è la ricerca di quel nucleo puro ed essenziale che ogni cosa racchiude in sé, sia essa un materiale, un tessuto, ma anche una parola, un gesto, un’immagine, un suono, un canto. È molto più facile declinare la bellezza nello sfarzo, nella sontuosità, nel lusso che sono le forme mondane di bellezza. La bellezza mondana è in se stessa bellezza anestetica che invitando a fissare lo sguardo unicamente sull’oggetto porta a chiudere gli occhi sul mondo, sugli altri e sulla realtà((13)).
Al contrario, quella della liturgia non è una bellezza anestetica, ma una bellezza che fa dell’oggetto un semplice segno che invita ad aprire gli orecchi alla parola di Dio e a spalancare gli occhi sugli altri e sulla realtà. Per questo, la bellezza semplice della liturgia cristiana non è bellezza mondana ma bellezza santa, perché riflesso della bellezza di Dio e di quella bellezza alla quale ogni uomo è chiamato.
Goffredo Boselli
(articolo tratto da www.webdiocesi.chiesacattolica.it)
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