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Luciano Squillaci (FICT): “Di fronte al dramma della tossicodipendenza nessuno si può sentire assolto”
“E’ necessario educare alla relazione, educare alla comunità ed educare la comunità a prendersi cura delle fragilità che crea”. Luciano Squillaci, presidente della FICT – la Federazione Italiana delle Comunità Terapeutiche – lo dice chiaramente: il dramma della tossicodipendenza riguarda tutti, nessuno si può sentire assolto. In una società assolutamente indifferente ai temi della povertà e dell’esclusione sociale, rimettere al centro la persona è l’unica via possibile.
In occasione del 26 giugno – Giornata Mondiale contro le Dipendenze – racconta, anche attraverso i numeri, di una società distratta, “che ha perso la forza di indignarsi, di scandalizzarsi”; della tendenza a massificare, a ragionare per stereotipi e luoghi comuni, pensando che il problema debba riguardare sempre qualcun altro; del disinteresse che spesso nasconde “la paura di inadeguatezza che gli adulti si portano dietro”; di un’assunzione di responsabilità, che deve riguardare tutti; di un’ignoranza collettiva che è funzionale ad un Sistema che non intende investire in percorsi educativi e di prevenzione e di un Governo assente, “che non risponde e che, ad oggi, non ha inteso conferire neanche una delega politica al tema delle dipendenze”.
Squillaci insiste: “Le persone non sono i loro problemi”. Bisogna uscire dal welfare categoriale che le raggruppa in funzione delle loro difficoltà e che misura tutto in denaro, persino i bisogni della gente: “Dobbiamo promuovere la cultura che mette al centro la persona, la sua bellezza, la sua straordinaria unicità con le sue fragilità come arricchimento della società in cui vive. Negare questa visione significa negare il nostro futuro, negare il futuro della stessa comunità”.
Nonostante gli ultimi dati della relazione al Parlamento raccontino in maniera molto chiara una realtà in cui l’assunzione di droghe coinvolge oltre il 50% dei giovani, oggi del fenomeno non si parla più. Lo si fa in casi eccezionali, alimentando la curiosità morbosa legata a fatti di cronaca particolarmente eclatanti e offrendo spesso una visione assolutamente superficiale.
Purtroppo è esattamente ciò che sta accadendo. La sensazione è che ormai ci sia un diffuso sentimento di resa di fronte alle dipendenze, una normalizzazione che porta ad una sorta di pericolosa ineluttabilità degli abusi. La società del consumo accetta senza battere ciglio che tra questi possa esservi anche la sostanza: che sia legale o illegale, alcool o coca, fumo o smart drugs, non fa alcuna differenza. Persino di fronte ai dati relativi ai giovani, che vedono un aumento esponenziale dell’uso di sostanze e di alcool e soprattutto un’età sempre più bassa della “prima volta”, la nostra società ha perso la forza di indignarsi, di scandalizzarsi. Ovviamente ciò che davvero impressiona non è tanto la benevola accettazione dell’uso di droghe, quanto l’esaltazione dello stile di vita che ci sta dietro. Salvo ovviamente tornare a cospargersi il capo di cenere nel momento in cui la cronaca di morti annunciate ci riporta drammaticamente alla realtà.
La morte di Sara Bosco – sedici anni, overdose da eroina – ci parla di una società distratta, incapace di instaurare e mantenere relazioni …
La morte di Sara è una sconfitta per ognuno di noi. Nessuno si può sentire assolto. E’ l’emblema di una società assolutamente indifferente ai temi della povertà e dell’esclusione sociale. Sara era scappata da una comunità per minori e viveva nel tugurio dell’ex Forlanini, a Roma, dove ha trovato la morte per overdose da eroina. Basta solo questo per interrogare tutti noi: come è possibile che nel 2016 ancora accadano queste cose? Eppure ancora oggi si muore di eroina. E sono i giovanissimi come Sara ad essere più esposti. Gli ultimi dati ci dicono come tra i giovani tra i 15 ed i 19 anni, 1 su 5 dichiara di aver usato almeno una volta cannabis o altre droghe cosiddette leggere, e di questi i ¾ si dichiarano consumatori abituali, circa il 4% dichiara di aver usato la cocaina, e quasi il 3% dichiara di aver assunto sostanze senza neanche sapere quali fossero. Ed è quest’ultimo dato di vera e propria ignoranza che forse fa più paura. E’ il frutto del disinvestimento degli ultimi dieci anni sui percorsi educativi e di prevenzione, campo nel quale dopo la cancellazione del Fondo Nazionale per le dipendenze si sono praticamente azzerati gli investimenti, ed è il risultato del colpevole silenzio e del disinteresse istituzionale e civile che circonda il mondo delle dipendenze. Il prossimo 26 giugno, in occasione della giornata mondiale contro la droga, con la Federazione Nazionale delle Comunità Terapeutiche abbiamo deciso di organizzare eventi su tutto il territorio nazionale per ribadire con forza il nostro no alla droga, per confermare che il dato sulle dipendenze non è e non può essere considerato come ineluttabile ed immodificabile. E lo vogliamo fare ripartendo dai territori, dalle comunità, dai singoli cittadini. E’ necessario educare alla relazione, educare alla comunità ed educare la comunità a prendersi cura delle fragilità che crea. Promuovere la cultura che mette al centro la persona, la sua “bellezza”, la sua straordinaria unicità con le sue fragilità come arricchimento della società in cui vive: negare questa visione significa negare il nostro futuro, negare il futuro della stessa comunità.
Anche Ilaria, morta per l’ecstasy meno di un anno fa, aveva sedici anni. La sua morte ci ha raccontato la facilità con cui troppo spesso si tende a giudicare. Si è parlato di piercing, “strane amicizie”, capelli rasati e “inquietudine esistenziale” quasi a volersi distaccare, limitando la tossicodipendenza a determinati ambienti o personalità cosiddette fragili…
Purtroppo tendiamo a massificare e ragionare per luoghi comuni. Nella mia esperienza ho conosciuto genitori che pur avendo certezza che il proprio figlio era tossicodipendente, non accettavano la realtà continuando a non crederlo possibile. E’ un fatto frequente, un pensiero ricorrente “a mio figlio non potrà mai succedere”, “mia figlia non è come quelli”. Salvo poi renderci conto, spesso troppo tardi, che se un ragazzo su cinque a scuola ha provato almeno una volta una sostanza illegale non può essere sempre il figlio di qualcun altro. E’ un problema educativo. La società degli adulti oggi ha perso solo la capacità di ascoltare, ma soprattutto ha perso la capacità di leggere i piccoli segni, le implicite e silenziose richieste di aiuto. La velocità con la quale si svolge la nostra vita rende tutto superficiale, soprattutto le relazioni. Al contrario, invece, le relazioni significative, quelle realmente educative, hanno bisogno di un investimento importante della risorsa tempo, l’unico “denaro” che i genitori di oggi non sono sempre disponibili a spendere per i propri figli.
“Ciò che preoccupa maggiormente – hai detto – è la mancanza di attenzione del mondo degli adulti rispetto a questo problema”.
Ho la netta sensazione che i genitori oggi non siano disattenti per semplice strafottenza. Al contrario, il disinteresse che spesso vediamo in molti di loro credo sia legato alla paura di inadeguatezza che a volte gli adulti si portano dietro. Davanti a problemi che riguardano i nostri figli, che spesso non comprendiamo ed ancora più spesso non riusciamo neanche a leggere correttamente, la negazione rappresenta un via di fuga frequente. E questo è una ragionamento che, allargato, vale anche per le Istituzioni. I problemi sono così importanti e difficili, le risorse così poche ed inadeguate, che sempre più spesso l’intera comunità alza le braccia, si arrende, e lo fa nel modo più vigliacco, mettendo la testa sotto terra, come gli struzzi.
Si semplifica, deresponsabilizzandosi, continuando a ragionare per categorie e perdendo di vista la dimensione personale …
Su questo tutti noi abbiamo delle responsabilità importanti. Oggi tutto si misura in denaro, persino i bisogni della gente. Il nostro sistema di welfare è basato sulle risorse economiche disponibili, non sui reali bisogni dei cittadini. E dal momento che le risorse sono sempre meno, la conseguenza logica è una riduzione costante di risposte. E’ così che è nato il welfare categoriale che oggi impera in Italia, e non solo. Non si ragiona più sulla persona, nella sua complessità e nella sua straordinaria originalità, ma si ragiona sul problema, raggruppando le persone in funzione delle loro difficoltà: tossicodipendenza, alcolismo, disabilità, non autosufficienza, povertà… ma le persone non sono i loro problemi. Ecco perché oggi è ancora più urgente ribadire la necessità di porre al centro la persona, con tutte le sue risorse e con tutte le sue fragilità. Abbiamo la necessità di ribaltare il concetto stesso, sinora conosciuto, di welfare, riuscendo a strutturare un modello capace di rispondere alle reali necessità di ogni singolo, che non si fondi sulle prestazioni a compartimenti stagni che in questo momento sono in grado di fornire i servizi sanitari e sociali, ma che sia capace di prendere in carico la persona nella sua complessa e straordinaria unicità.
Nei tuoi interventi sei sempre molto diretto: “Il problema esiste ed è reale. Ma il Governo italiano nulla fa, nulla dice e certamente non se ne occupa”.
Ad oggi il Governo non ha inteso conferire neanche una delega politica al tema delle dipendenze. Qui non si tratta di non volersi occupare del problema, siamo ancora più a monte: non ci si pone neanche la questione. Come FICT, insieme alle altre reti nazionali di rappresentanza del mondo delle dipendenze, abbiamo sollecitato in ogni modo il Governo perché si attivi, ma ad oggi purtroppo non ci sono state risposte. Sono passati quasi sette anni dall’ultima Conferenza Nazionale sulle dipendenze, e la legge impone che venga convocata ogni 3 anni, uno strumento che nasce per consentire un confronto tra Governo ed attori del sistema sociale e sanitario che consenta di strutturare strumenti adeguati di intervento. La stessa normativa, di cui ancora oggi il testo di riferimento è il DPR 309 del 1990, è ormai vetusta e necessiterebbe di un intervento strutturale di riforma, che non può avvenire per compartimenti stagni come purtroppo in alcuni casi, più ideologici che politici, si sta tentando di fare (vedi ad esempio il disegno di legge sulla legalizzazione della Cannabis). Sono tutti elementi – ed altri se ne potrebbero aggiungere – che rendono evidente il completo abbandono governativo in cui è lasciato il mondo delle dipendenze. L’iniziativa che metteremo in piedi come FICT il prossimo 26 giugno ha anche l’obiettivo di lanciare un grido di dolore che speriamo qualcuno, anche a Roma, sia in grado di ascoltare.
Il Governo non risponde e quando lo fa si nasconde dietro la mancanza di risorse, continuando a portare avanti “ragionamenti economici da ragionieri e mettendo da parte la persona”.
E’ il grande male con il quale ci troviamo a combattere, soprattutto sui territori. Le risorse economiche ormai sono diventate metro e misura di ogni programmazione. Non si ragiona sugli interventi in base ai bisogni ed ai relativi obiettivi da realizzare, ma si costruiscono i piani sanitari e sociali partendo dalle risorse disponibili. Questo ovviamente porta necessariamente a due conseguenze: la prima è la divisione per categorie delle persone, di cui già ho detto prima, la seconda, non meno rilevante, è determinare la conseguenza di una costante tendenza alla riduzione delle risorse stesse. Ragionare solo sulle risorse infatti rende la programmazione spesso inadeguata, con il risultato di perpetrare gli sprechi legati ad interventi errati, ricoveri impropri o servizi inutili. Ripartire dalle persone, e fondare la programmazione sui bisogni e non sulle risorse economiche, è oggi una necessità non solo qualitativa, ma anche quantitativa. Una buona programmazione consente di dare risposte adeguate evitando sprechi inutili.
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