Giuliano Guzzo

10 cose da sapere prima di (s)parlare di aborto e obiezione di coscienza

Non intendo tornare sul mio pensiero in fatto di aborto procurato e obiezione di coscienza, credo oramai ben noto ai miei lettori e amici, ma solo mettere a fuoco dieci punti fermi, dieci aspetti che sarebbe bene tenere a mente prima di qualsivoglia considerazione su questo delicatissimo argomento. Dieci cose, in definitiva, che sarebbe opportuno sapere altrimenti, invece di dire la propria opinione, si finisce solo per dimostrare la propria ignoranza.
  • L’obiezione di coscienza è espressamente prevista dalla Legge 194, dunque non è una gentile concessione di qualche ASL o Regione a governo oscurantista bensì un diritto di rango almeno pari a quello di chi intende abortire.
  • La contrarietà all’aborto non esige alcuna adesione confessionale. Si potrebbero, a questo proposito, ricordare le parole di Bobbio o di Pasolini, con quest’ultimo che un giorno ebbe a dire: «Sono traumatizzato dalla legalizzazione dell’aborto, perché la considero, come molti, una legalizzazione dell’omicidio».
  • E’ da vedere che l’opposizione all’aborto derivi dal Medioevo, ma è certo che i primi Stati a rendere legale l’aborto siano stati l’URSS di Lenin, nel 1920, e la Germania di Hitler, coi nazisti ascesi al potere da neanche sei mesi quando, nel 1933, stabilirono per legge l’impegno a prevenire «le nascite congenitamente difettose»: due “prime volte” che non hanno esattamente il sapore del progresso.
  • L’obiezione di coscienza non è un valore cristiano, essendo connaturata alla professione medica sin dai remotissimi tempi di Ippocrate di Kos (460- 377 a.C.).
  • I medici obiettori, in Italia, non possono rappresentare un problema poiché non solo non crescono, ma risultano in calo: erano il 71,5% nel 2008, mentre nel 2014 il 70.7 %(cfr. Relazione del Ministero della Salute 2016, p.44).
  • L’Europa non ha mai condannato l’Italia sull’obiezione di coscienza, anzi: il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa si è espresso definitivamente lo scorso luglio dopo due reclami, uno della IPPF-EN, l’altro della CGIL, con un giudizio positivo.
  • Il problema vero, per un medico, non tanto è il numero di aborti eseguiti quanto il fatto stesso di praticarne, cosa che comporta – secondo uno studio – «stanchezza cronica, irritabilità, paura di andare a lavorare, disturbi fisici e mancanza di gioia di vivere» (cfr. Nursing Ethics, 2013).
  • In media, in Italia, ogni ginecologo non obiettore esegue ogni settimana, a livello nazionale, 1.6 aborti (considerando 44 settimane lavorative in un anno), con una procedura abortiva che, secondo l’OMS, ha una durata media che non supera i 10 minuti.
  • Guardando i dati regionali, in Italia solo 3 ASL su 140 (con fino a 15 aborti settimanali) si discostano dalla media nazionale, mentre nelle restanti 137 invece i numeri sono molto più bassi (7 in un caso, e poi sempre meno di 5), corrispondenti a un lavoro di non più di mezza giornata.
  • Non c’è nulla di scandaloso nel fatto che in alcune strutture non si riesca ad abortire: neppure in ogni ospedale, se è per quello, vi sono i punti nascita. Avete mai sentito chi oggi lamenta l’impossibilità di abortire denunciare quella di partorire?


Una volta che questi punti risultano ben chiari, ha senso discutere.  
Altrimenti, tanto vale farsi una passeggiata: sarebbe fiato sprecato.

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