Papaboys 3.0
Vi diciamo perché Gesù Bambino sta per nascere anche in un cuore marcio
“Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14).
La Parola lascia l’astrattezza del suono e si fa carne, assumendo la condizione umana, concreta e affatto spregevole, se Dio la sceglie per Sé. Non è più il tempo della profezia, attraverso la quale parla la bocca di Dio, o del linguaggio poetico del salmista: Dio si fa visibile in un’immagine tutt’altro che regale, lontana da ogni altisonanza, nell’assoluta impossibilità di combattere anche la più banale delle guerre. Il Testamento è nuovo ed è Epifania: Dio si manifesta ai sensi dell’uomo, perché l’incontro abbia luogo. E tra gli uomini pone la propria dimora o, meglio, “innalza la Sua tenda”. Non ne sceglie di particolarmente privilegiati, anzi: quella dei pastori è considerata, forse, la categoria meno “pura”, proprio per il fatto che viva a stretto contatto con il bestiame. Eppure i loro occhi sono i primi a contemplare, le loro orecchie sono le prime ad ascoltare l’annuncio.
È in una stalla che Dio sceglie di nascere. E se la stalla è nel cuore dell’uomo, Dio nasce lì. “Veniva al mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo…” (Gv 1,9), non per lampioni accesi, ma per storie in cui le tenebre sono l’unica realtà tangibile, drammatica, fatta di incapacità, di finitezza. È proprio lì, tuttavia, che scende l’Infinito: la tenerezza di Dio lascia la maestà dei cieli e penetra nella fragilità umana, perché nessuno rimanga fuori dall’azione della salvezza. Nasce nel luogo in cui non si cercherebbe, in una scena che non si presterebbe certo alla divinità, e nasce Piccolo, debole, povero. È, dunque, in quella nascita che fa Sua ogni debolezza, la incarna, avvicinandosi all’uomo, fino a chiedergli le braccia, come un qualsiasi neonato. Gesù Bambino non domanda che braccia siano quelle che possano cullarlo: gli basta sapere che sono lì per Lui.
Più il cuore è sofferente, appesantito dal dolore, o sudicio, o inaccogliente, o gelido, più il Bimbo desidera che diventi mangiatoia. È lì che è Natale. L’Amore chiede solo di essere contemplato.
La Gloria (kabod) non è manifestazione magniloquente e festosa di canzoncine romantiche e melense e di stelline luccicanti: indica il ‘valore’, il ‘peso’, l’importanza di qualcosa o di qualcuno. La Luce vera che spezza ogni cecità e permette che si veda e si contempli la Gloria di Dio, ne lascia comprendere l’essenza, conoscere la sostanza. Non c’è alcuna preclusione, se non la volontà dell’uomo, né marciume di cuore che non possa volgere gli occhi alla Bellezza immensa del Dio Bambino per mutare la propria identità: persino nel cuore di chi abbia scelto la morte, Gesù può portare la vita, dando la dignità di riconoscere la secondogenitura, perché ci si può solo interrogare su “quale grande amore ci sia stato dato per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente” (I Gv 3,1). E agli interminabili quesiti dell’uomo, ansiogeni fino alla compulsione, distratti dalla preoccupazione, inutilmente travolti dal voler fare da sé, il Padre risponde con la Pace del Bimbo, che giace sulla paglia, davanti agli occhi di chi lo guarda.
La scala sociale compresa tra i pastori e i Magi indica la più dettagliata varietà umana: non ci sono requisiti in antefatto per avere un posto davanti alla Grotta. È questione di cuore. Il resto lo fa Lui. Eppure i Magi, in vetta, per così dire, all’ordine gerarchico dei presenti, per far ritorno a casa, cambiano strada…
Ogni ginocchio, allora, si pieghi a Gesù Bambino e Gli sia sottomessa ogni incredulità, ogni tentazione d’inadeguatezza: si chinino ai Suoi piedini il relativismo, l’autocolpevolezza, la resa di chi ha il cuore ostruito dal male e non crede di potersi fermare a contemplare la Dolcezza, la ragione che si ostina a far contenere alla capacità della sola mente l’intera Notte Santa.
Infondo, la mangiatoia è di legno, come sarà la croce, e le pecore anticipano la mitezza dell’Agnello che non conoscerà ribellione e che per Sé sceglierà l’immagine del Buon Pastore…
C’è un uomo a Betlehem, davanti alla Grotta: ha gli abiti lisi, le mani vuote, lo sguardo incantato rivolto al cielo e le labbra socchiuse. Il suo volto indica la condizione di chi abbia lasciato qualcosa di sé, abbia seguito la stella senza conoscere il percorso né l’obiettivo, e si sia prostrato davanti a Gesù.
Si è lasciato stupire dal Re, meraviglioso Dio.
di Loredana Corrao
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