Vangelo della Prima di Quaresima


Silenzio.
Più della fame, più della sete, più del caldo del giorno, più del freddo della notte. Un maestoso e imponente silenzio domina quelle lande desolate.
Forse il sussurro di un refolo di vento, il battito d’ala di un raro uccello, lo scalpiccio di qualche capra selvatica, il gorgoglio di una sorgente preziosa e nascosta.
Poi nulla. Solo pietra e silenzio. Cielo e silenzio. Luce e silenzio. Buio e silenzio.
Quaranta giorni e quaranta notti. Come Mosè sul Sinai, ma senza la consolante e vivificante voce dell’Altissimo. Come Elia in cammino verso l’Oreb, ma senza il conforto di un pane provvidenziale. Il deserto del Figlio Obbediente è unico e irripetibile.
Non sembra l’angolo dell’intimità con Dio di cui parla Osea. Neppure il tempio dell’Alleanza in cui ha dimorato Israele. Ancora meno il palcoscenico profetico della «voce che grida nel deserto».
Digiuno dal cibo. Digiuno dalla parola.
Ma anche da ogni seduzione esterna, da ogni elemento che possa catturare l’attenzione. Solo un ripetersi monotono e soporifero di pietre, anfratti e silenzio. Il posto meno favorevole alla tentazione sull’intera faccia della terra, in cui tutto spingeall’interiorità e al raccoglimento, alla continenza e alla disciplina.
Altri sembrerebbero i luoghi in cui ogni dettaglio spinge alla dissolutezza e al peccato. Ma qui? A quale tentazione possono mai indurre le sterpaglie del deserto? Quale genere di seduzione esercitano i labirinti di anfratti rocciosi?
Che lo Spirito conduca Gesù incontro alla tentazione nello spazio apparentemente più protetto e sicuro sembra un paradosso. Forse lo è meno di quel che appare.
Entrare in questa terra perduta è intraprendere la discesa alle radici dell’anima, èavvicinarsi al nucleo più intimo e profondo di sé, senza nulla di esteriore che possa strapparti a quella dimora nascosta.
Qui, Gesù è costretto a stare con te stesso. Faccia a faccia. Senza filtri, distorsioni, distrazioni.
Ed è lì che avviene lo scontro.
Il Nemico si aggrappa alla fragilità del corpo del Signore che grida naturalmente per la fame: è l’unica occasione che ha in mezzo a quel nulla. Ma non ci si inganni.
«Non di solo pane…»: la repentina risposta di Gesù mostra che l’appetito è solo la crepa attraverso cui Satana si insinua in profondità, scatenando il suo attacco a ben altro che il rispetto dell’astinenza.
Si accomoda alle fondamenta della libertà del Figlio Obbediente e avvia il suo demoniaco lavoro di scalpello al volto del Padre.
Non sono le “solite tentazioni”. Ciò che accade non è riconducibile alle esperienze di tutti i giorni e di tutti gli uomini, pur richiamandone dei tratti. È di più, molto di più. Il deserto del Figlio Obbediente è unico e irripetibile, come la Sua dimora interiore. Qui si decide del dominio del mondo e chi sia Colui davanti a cui piegare il ginocchio.
In quello spazio interiore in cui Gesù è sceso spinto dal sovrumano silenzio esteriore, di fatto non c’è però partita: il Figlio Obbediente continua a vivere nel Padre, della Sua parola, sulla Sua volontà, per il Suo amore1

Il luogo in cui ultimamente si dà la nostra identità di figli, di credenti, di discepoli del Vangelo è quello della nostra interiorità. Lì dove l’intelligenza, la volontà, la libertà si intrecciano in modo inscindibile dando forma alla nostra unicità e originando le nostre personali scelte perticolari.
Il deserto di Gesù, pur con la sua singolarità e irripetibilità, ricorda anche a noi che le battaglie decisive si giocano a quel livello e che la lotta contro il Tentatore avviene nel profondo del cuore dell’uomo, non fuori di esso.
Dobbiamo sempre avere profonda consapevolezza di questa verità per non cadere nel farisaico errore di ritenere che sia ciò che sta fuori di noi a garantire o inficiare la bontà della nostra vita di fede.
Attribuire esclusivamente alle cose, alle situazioni, alle circostanze la responsabilità delle nostre scelte non solo è segno di una certa immaturità umana e di fede , ma comporta il rischio di credere che per custodire l’autenticità del nostro discepolato sia sufficiente rimuovere – ammesso sia mai possibile – tutte le cosiddette «occasioni prossime di peccato».
Il deserto del Figlio Obbediente ci ha spinto in tutt’altra direzione: le condizioni esterne hanno un ruolo, ma non è certo determinante in modo assoluto. La battaglia è contro il Tentatore, non contro i suoi pretesti.
Si tratta piuttosto di vigilare costantemente sulla nostra interiorità, disciplinando anzitutto quella con determinazione e risolutezza. La sfida si gioca lì ed è in mano nostra, non delle circostanze, buone o cattive che siano.
La Quaresima è il tempo in cui riappropriarci della nostra dimensione interiore, prendendoci la responsabilità di riconoscre eventuali scelte discutibili e assumendo l’impegno di rivederle.
Passare la Quaresima – e magari tutta la vita – impegnati a “liberare i nostri deserti da ogni pietra che possa anche vagamente somigliare a un pane”, per evitare la tentazione, trascurando l’interiorità sarebbe un po’ sciocco.
Se non, forse, demoniaco.

  1. Riferimenti esegetici:
    U. Luz, Il Vangelo di Matteo, Paideia Editrice.

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