D. Tutu contro i muri dell’apartheid
«i muri contro i più deboli sono il nuovo apartheid»
intervista a Desmond Tutu
“Quei Muri non sono solo l’espressione violenta di un mondo che pensa di salvare i propri privilegi sbarrando la strada della speranza a milioni di esseri umani talmente disperati da affidare la propria vita a criminali senza scrupoli. Quei Muri sono anche il segno di una impotenza politica, di una bancarotta morale dell’Occidente e in esso della “civile” Europa. Quei Muri sono l’espressione contemporanea di un nuovo apartheid. I leader europei parlano di quote, ma mi appello a loro per ricordare che non siamo di fronte a dei numeri ma ad esseri umani, i più indifesi, quelli che non hanno voce e diritti. Aiutarli è un dovere per chiunque abbia ancora una coscienza e risponda al suo Dio”.
A parlare è colui che, assieme a Nelson Mandela, ha rappresentato il simbolo della lotta contro il regime dell’apartheid sudafricano: Desmond Tutu, arcivescovo anglicano emerito di Città del Capo, 84 anni, premio Nobel per la pace 1984. A lui ricordo quando, subito dopo la strage di migranti a Lampedusa, era il 2013, sempre dalle colonne de l’Unità lanciò un appello sostenendo la necessità di “una rivolta morale contro tutte le forme di schiavitù: dallo sfruttamento delle donne come schiave sessuali all’impiego dei bambini in condizioni inaccettabili per lunghe ore. Ma la piaga dei migranti illegali, e quel che accade loro, è una delle peggiori forme di schiavitù esistenti oggi al mondo. A quanti fuggono da guerre civili, conflitti tribali, pulizie etniche e da povertà disumane, occorre garantire protezione, riconoscere diritti, e il primo di questi è il diritto alla vita e a una vita migliore”. Da allora sono passati quasi due anni, e altre stragi di innocenti si sono consumate nel Mediterraneo, altre guerre si sono aggiunte a quelle allora esistenti, e oggi, secondo il recente rapporto Global Trends dell’Unhcr, ogni 122 abitanti del pianeta 1 è un rifugiato: “Purtroppo – riflette con amarezza Tutu – le cose sono cambiate, in peggio. Migranti disperati continuano ad affogare nelle acque del Mediterraneo, o a morire attraversando il deserto del Sinai, mentre in Asia sono state scoperte fosse comuni colme dei corpi di migranti. Ed ecco la ragione per cui la xenofobia e le migrazioni rappresentano oggi delle questioni urgenti a livello globale” Il mondo si “mura”. Dalla Palestina al cuore dell’Europa, passando per l’Egitto, la frontiera fra Stati Uniti e il Messico, e ancora Ungheria, Mostar, Cipro, Calais, Melilla… Cosa rappresenta per Lei questo moltiplicarsi di muri e barriere divisorie? “Quei muri non sono solo una vergogna, una nuova forma globale di apartheid. Quei muri, quelle barriere di filo spinato, sono anche il segno di una impotenza mascherata con l’esercizio della forza. E’ il voler chiudere gli occhi, oltre che i cuori e le menti, ad un mondo sempre più segnato da ingiustizie e da guerre, molte delle quali sono a loro volta il lascito di altre guerre scatenate dall’Occidente, in Iraq e in Libia, ad esempio. So bene che esistono problemi di sicurezza che non vanno sottovalutati, ma inorridisco di fronte a quanti, nella stessa Europa, cavalcano le paure verso il migrante per erigere altri “muri’ non meno pericolosi di quelli materiali: sono i “muri” dell’odio razziale, del pregiudizio portato all’estremo. Ma questi “Muri”, materiali e morali, non potranno mai arrestare una moltitudine di disperati che cresce di giorno in giorno. Leggo che molti in Europa si chiedono dove vuole andare questa gente. Ma la domanda vera da porsi è un’altra…”. Quale è questa domanda, arcivescovo Tutu? “E’ chiedersi da quali gironi dell’inferno questi esseri umani fuggano, da quali indescrivibili abomini cercano di liberarsi, cosa hanno visto i loro occhi, quali crudeltà hanno subito per decidere di mettere la propria vita, quella dei propri figli, nelle mani degli scafisti. La grande maggioranza di queste persone provengono dall’Eritrea, dalla Somalia, dalla martoriata Siria: hanno diritto all’asilo e questo asilo deve essere europeo, perché è profondamente ingiusto, oltre che inefficace, lasciare soli ad affrontare quella che non è più una emergenza ma la “normalità” in un modo destabilizzato, Paesi di frontiera come è l’Italia. Ho avuto modo di scriverlo recentemente e mi pare importante ripeterlo con forza in ogni dove: nessuno sceglie di essere un rifugiato o un migrante. Trovarsi ad
affrontare la povertà, la discriminazione, la violenza, la guerra, la corruzione e la malnutrizione è un po’ come starsene chiusi in prigione, perché ti rende incapace di vivere a pieno la tua vita. E la migrazione rappresenta l’unica via di fuga. “Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese” : non lo afferma Desmond Tutu, conterebbe davvero poco, ma lo sancisce l’articolo 13 (punto 2, ndr) della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Contribuire ad attuare questo principio è compito di ogni uomo di buona volontà”. Tra le tante frasi che l’hanno resa celebre nel mondo, ce n’è una che mi sembra che più di altre dia il senso a quella rivolta morale contro i costruttori di Muri, da Lei evocata: “Non mi interessa raccogliere briciole di compassione buttate dal tavolo da qualcuno che si considera il mio maestro. Voglio il menu completo dei diritti” “Sì, è così. Non si tratta solo di essere “insaziabili” quanto a libertà e a diritti, umani, civili, sociali, ma quella frase è anche la richiesta di un’assunzione di responsabilità da parte di ciascun individuo, non importa se potente o meno. Nessuno oggi può dire “non sapevo, non ho visto” ovvero “il problema è troppo grande non sarò certo io a poterlo risolvere”. La risposta è che affermazioni come questa rendono quei problemi insormontabili. In tanti incontri a cui ho partecipato in ogni parte del mondo, ho spesso sentito parlare della mancanza di una leadership politica all’altezza dei tempi. Mi sono permesso di affermare che ciò di cui sento spesso la mancanza è di una leadership etica…”. Come si pratica una “leadership etica”? “In tanti modi. Ad esempio, non stancandosi mai di rammentare come ci si senta a essere perseguitati o senza voce. Mantenere la dignità della vittima, ma anche mostrare indulgenza per le sfide della leadership come collettivo di persone che sono state liberate dai vincoli del ruolo ufficiale”. Quella siriana, ha affermato a più riprese il segretario generale delle Nazioni Unite, BanKimoon, rappresenta la più grande tragedia umanitaria dal dopoguerra ad oggi. “Oggi la Siria è un ammasso di macerie, teatro di una guerra che non conosce limiti. Quello siriano è divenuto un popolo di sfollati, alla mercé di bande di assassini che fanno mostra della loro abiezione. Non ho mai creduto che la guerra possa sconfiggere la guerra, e non sono tra quelli che hanno tacciato di vigliaccheria quei leader politici occidentali che si sono dichiarati contrari ad un intervento militare in Siria. Ma l’alternativa alla guerra non è, non deve essere la rassegnazionei
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