I capelli bianchi del mio vescovo
e le borse in pelle delle signore...
di don Marco Pozza
Nella diocesi di Padova, l'avvicendamento di un vescovo
è un'esperienza che per i preti ordinati negli ultimi 27 anni
costituisce un fattore novità.
Tant'è che moltissimi sacerdoti si stanno chiedendo da mesi:
“Come sarà la diocesi senza il vescovo Antonio?”
Difficile anche solo immaginarlo
dopo quasi tre decenni di guida pastorale:
cinque lustri lasciano il segno nell'anima,
nelle scelte, nei rapporti personali.
Un po' come tentare d'immaginare una famiglia
quando il patriarca se ne va:
c'è sempre un po' di trepidazione in chi rimane.
Ai più interessa sapere chi sarà il successore:
in due mesi, stando alle indiscrezioni giornalistiche
che sempre falliscono il bersaglio,
avremmo rimesso mano a tutte le diocesi d'Italia,
con tutti i nomi che sono usciti:
i più disparati, i più disperati, i più improvvisati.
Per altri, fortunatamente, ciò che conta
è fare sintesi di una storia
condivisa assieme per poi ripartire:
più attrezzati, più convinti, più uomini di Dio.
Chi scrive non è stato esente dall'eterna domanda
che stuzzica i cervelli feriali:
“Che vescovo è stato secondo te?”
Una domanda alla quale ho sempre declinato l'invito:
comprendere viene prima di vendere.
Anche nelle discussioni:
prima viene la comprensione di un percorso,
poi se ne vende la notizia.
Personalmente penso che Antonio non sia stato
il vescovo più bravo della Chiesa Cattolica:
anche se occorrerebbe definire il concetto di “bravo”
tra le mura ecclesiastiche prima di indire un concorso simile.
Non il più bravo, dunque.
Nemmeno il più incapace, però:
dire questo sarebbe beffeggiare pericolosamente lo Spirito Santo,
il “trentatré” per cento della Trinità,
il custode della profezia e dell'intuizione.
Penso al mio vescovo e mi dico:
“Ha cercato d'essere il miglior vescovo possibile”.
O meglio: s'è impegnato a fondo per rimanere il più fedele possibile
alla sua missione di successore degli apostoli.
A me, oggi, questo basta per dirgli grazie.
Quando entrai in seminario minore in prima media lui c'era già;
quando sono entrato in seminario maggiore a diciotto anni,
lui c'era ancora.
Quando sono stato consacrato sacerdote,
è stato lui a fare di un perdente come me
un serbatoio della grazia di Dio.
Poi vennero gli anni difficili del primo sacerdozio:
il conflitto tra l'istituzione e il carisma,
la lacerazione tra il centro e la periferia,
la diatriba tra chi gli diceva “frenalo”
e chi gli suggerì la sapienza contadina
del bastone e della carota.
Di qualche capello bianco che oggi porta in testa,
la responsabilità è mia.
I capelli, però, sono come certe borse in pelle pregiata delle signore:
più sono usate, più divengono belle.
Al mio vescovo ho sempre lasciato l'ultima parola:
non gli ho mai lasciato, però,
confondere l'obbedienza col servilismo,
la castità con la castrazione,
la povertà con la miseria.
Una volta spiegategliele, ho scoperto che non ce n'era bisogno:
era un uomo di sfumature e finezze.
E' stato il mio vescovo.
M'ha convinto di più dopo i settant'anni:
ho riscoperto la sua umanità, la sua freschezza di spirito,
il senso della profezia.
Forse anche i miei occhi erano mutati nel corso degli anni.
Quando m'ha affidato il ferro e il cemento della patria galera,
ho intuito che i veri allenatori sono quelli che,
a chi nasce fuoriclasse, dimostrano di saperci parlare.
Ci sono uomini di Dio che tentano di arginare
la furia dei fiumi e ne escono affogati;
altri lavorano sugli argini, sui margini
e la loro terra ne esce fecondata.
Non senza fatica, attrezzi e sudore.
Chi gli succederà?
A dare voce all'ambizione e ai pronostici,
c'è un grosso incolonnamento in corso, silente e vociante.
All'ambizione umana, preferisco l'ambizione dello Spirito:
quello che, anni addietro,
cacciò i pronostici fuori dalla Sistina
e scommise su un uomo di periferia,
Francesco.
E' l'unico,
lo Spirito, a capirci qualcosa nel dedalo dei pronostici.
Come a Padova nel 1989...........
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