Speriamo che tu ce la faccia. Anche no, però!
di don Marco Pozza
L'ora dell'operazione – dopo mesi d'attesa, di trambusto, d'imbarazzante ospitalità - era dunque arrivata. Il vecchio “lupo di galera” stava per entrare in sala operatoria: ad attenderlo, l'ardua sfida del male. Quello che t'inchioda, che succhia le forze, inghiotte la speranza, male che non lascia scampo. Sul limitare di quegli attimi, son diventato ambasciatore di un doppio augurio, raccolto tra le navate ferrose della galera, sintetizzato in un sms: “Sperano di rivederti al più presto. Alcuni ti augurano di rimanere sotto i ferri”. Certi conti, non solo da quelle parti, rimangono irrisolti: in sospeso, avanzi di rendiconti, conti tutti da sistemare. La risposta non ha tardato ad arrivare: “Grazie, ci vediamo presto. Il lupo vivrà”. Scritto così, con franchezza. Assai speranzoso, alla faccia dei gufi.
Fuori dalla sala operatoria, lo sguardo di chi scrive si è presto tramutato in un incrocio affollatissimo di pensieri. Scorrevo i messaggi: in tanti a chiedermi di quell'uomo-solitario. Immaginavo il trambusto dentro la sala operatoria: lavoro d'altissima precisione, di delicata chirurgia, di rammendo del fisico. Per uno che era sotto i ferri, c'era quasi una contrada di gente al lavoro. Più un pezzo di parrocchia che, poco distante, l'attendeva fremendo. Pensavo tra me: “Tutto questo trambusto per un detenuto. Lo merita davvero?” Davanti, mi scorrevano le immagini di un'intera vita di inchieste e di processi, di strade slabbrate e di faldoni giudiziari, di citazioni e di rivalse. Di conti rimasti ancora fastidiosamente in sospeso. Il tempo, nel frattempo, scorreva: per una volta pareva lentissimo, pachidermico, un secondo lungo come un millennio. Il tempo dell'attesa è un complemento di tempo-continuato: tempo-determinato, invece, è la bellezza, il gaudio. Mendicante speranza, mi sono scoperto innamorato della vita: «Siamo affetti da una malattia con prognosi riservata: l’esistenza» (C. Gragnani).
Dopo quasi nove ore d'intervento, la porta si apre: per chi vive sulla strada, per chi vive la strada, una porta che si apre è una liturgia densa di sapore. Il lupo, anche stavolta, ha tenuto fede alla promessa: “Il lupo vivrà”. Quando sale in reparto, il mio stupore raddoppia: ad attenderlo c'è uno stuolo di gente d'alta professionalità. Con quel di più d'umanità che mi farà ricordare a lungo l'ospedale Sant'Antonio, a Padova: i volti col sorriso, l'agitazione composta, la cura appassionata del degente. Lì, appoggiato al muro, ho ripensato al verbo “operare”: condivide la stessa radice di “opera”. Una radice linguistica che suggerisce manovra, manovalanza, movimento: tagliare, cucire, rischiare. Operare somiglia tanto a trapiantare, innestare, saldare. Anche nella fede cristiana si consigliano delle opere per guarire lo spirito: le opere di misericordia corporali e quelle spirituali. Tra quelle corporali, due mi si sono annunciate prosperose in quei frangenti d'attesa: visitare gli infermi, visitare i carcerati. Uno sfacciato colpo di fortuna: visitando una sola persona, avevo l'occasione di guadagnare due piccioni-di-cielo con una fava-di-fatica: malattia e carcerazione s'erano incrociate in un solo uomo. Certi poveri sono passaggi per Dio.
Sono giorni che l'umanità di quello staff mi disturba il sonno: loro, e tutta quella tribù di gente che s'affaccia per donare del tempo a quell'uomo. “Chissà se lo merita davvero” è la domanda di un prete incredulo come me. Per poi scoprire che tutto quell'ambaradan d'affetto il Cielo l'aveva organizzato perchè mi decidessi, finalmente, a convertirmi. Mi ha mostrato, senza ombra di dubbio, che è proprio così che dovrebbe essere la mia Chiesa: una sala operatoria. Dove l'importante, con certe malattie, non è misurare il livello dei trigliceridi ma l'urgenza di salvare una vita. D'annunciare subito la salvezza. L'operazione del lupo è diventata l'operazione di un prete: una trasfusione di misericordia.
(da Il Mattino di Padova, 21 febbraio 2016)
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