Il diario di Sandokan – Il pudore
Il tenente dei granatieri Carlo Roddolo, del dodicesimo battaglione arabo-somalo, ferito nel combattimento di Basirà del 14 gennaio del 1937 e morto all’ospedale di Adis Abeba il 25 del mese successivo, non è conosciuto da tanti. Ed è un peccato.
Un po’ di notorietà la ricevette da alcune lettere che egli scrisse ai suoi amici. Indro Montanelli, che era tra questi, ne pubblicò anni fa alcuni stralci in un ritratto che egli volle fargli.
Le corrispondenze di guerra sono spesso bellissime. Piene di tenerezza e di pudore. I generali raccontano le battaglie e gli eroismi. I soldati quasi se ne vergognano. Molti tra questi non sono combattenti di professione. Sono “civili”, addestrati e inviati sul fronte. Non hanno pensieri di eroismo. Hanno la paura e la curiosità del bambino che per la prima volta viene accompagnato a visitare uno zoo e ha la possibilità di osservare animali che credeva esistessero solo nei libri. Mi ricordo di aver letto che C.S. Lewis, appena giunto sul fronte francese durante la prima guerra mondiale, pensò: «Ecco la guerra. Ecco la cosa di cui scriveva Omero».
Il ritratto che Montanelli fa di Roddolo è una delle mie letture preferite. Ci trovo parole che mi aiutano e mi assomigliano. Forse non andrò mai in guerra, ma esco di casa tutte le mattine e ho anch’io il problema di dare un senso a tutto quello che faccio o che mi accade.
Il tenente Roddolo va in guerra per vigliaccheria. Almeno così scrive:
«Vengo [in Etiopia] perché ci siete già andati tutti e qui sarei rimasto solo. L’impresa, a dirti il vero, mi sembra una grossa carnevalata goliardica. Ma come restare a viso scoperto in un ballo mascherato? Le ragazze in via Veneto, vedendomi ancora vestito in borghese, quasi mi evitavano. E io non sono abbastanza superiore per infischiarmi di queste cose: cedo al ricatto dell’eroismo obbligatorio».
Il motivo di quella guerra, a cui decide di partecipare “per vigliaccheria”, un po’ in realtà lo comprende. Però in guerra si va per tanti motivi e trovarsi a fianco di alcuni lo fa star male, perché queste avventure vanno affrontate “con un certo pudore”, così dice lui. Non parla mai di “coraggio” – del suo coraggio, una virtù che non riteneva di avere – nelle sue lettere, parla di “pudore”.
«Stamattina un vice federale che non ha mai fatto il militare, ma che è riuscito lo stesso a diventar sottotenente e che fa parte del nostro gruppo, andava dicendo tutto giulivo: “Ragazzi, fra poche ore, salendo in piroscafo, un nastrino ce lo siamo già messo da parte …”. Erano parole che facevano scandalo. Ma lo facevano perché davano voce a un pensiero di tutti».
I “vigliacchi”, come lui, e i collezionisti di “nastrini”, come il vice federale di cui scrive, partivano tutti per combattere la stessa battaglia. E questo lo turbava. Però a un certo punto se ne esce con una riflessione sconcertante, come se volesse “sottrarre” il vice federale al suo disprezzo e al disprezzo di chi avrebbe letto le sue parole.
«Eppure non mi meraviglierei se poi questo vice federale, che parte alla caccia di una cosa tanto buffa qual è “il nastrino”, ne facesse una cosa seria, cioè morisse, coraggiosamente, alla testa dei suoi soldati. Ed è a questo punto che non mi raccapezzo più, e avrei quasi voglia di concludere che chi s’imbarca per un’impresa di tal genere non possa, se vuole evitare l’equivoco, che morirci. Per moralizzarla. Per giustificarne il risultato. Via, siamo giusti: sui “nastrini” soltanto non si può costruire un impero che sia qualcosa di più di una fugace avventura».
Il tenente Roddolo morì in battaglia e riposa nel cimitero italiano semiabbandonato di Gulalli, poco fuori Adis Abeba. Sulla sua tomba una croce fra tante, seminascosta da folte erbe all’ombra di mimose ed eucalipti.
L’ultima cosa che scrisse, poco prima di morire, fu: “che peccato”. Una specie di “pudore” con cui accoglie la sua morte, che non ha cercato ma che non può evitare. L’ultimo tentativo di non essere giudicato “un eroe” dal suo prossimo.
Perché mi piace questa storia? Perché è sincera. Se è vero che è la verità che mi fa libero, è la sincerità che mi fa vero. Voglio dire che l’unica possibilità che ho di essere “vero” è di essere sincero. Mi piace questa idea moralizzatrice della morte, vista come un “fuoco” capace di trasformare la sincerità in verità. Se c’è sincerità.
Avrei finito qui, ma buona Pasqua a questo punto ci sta bene.
Commenti
Posta un commento