Di quei baby criminali siamo sicuri di non essere responsabili un po’ anche noi?
di Michela Giordano
I miserabili di Victor Hugo erano gli ultimi, i dimenticati, i reietti della società. Chi sono invece i miserabili di oggi? Quanta grazia usiamo nel giudicarli? Al via da oggi il nuovo blog della giornalista e scrittrice Michela Giordano, una rassegna di storie legate dal filo rosso del peccato ma accomunate dalla redenzione.
Per ciascun essere umano c’è (o ci dovrebbe essere) un libro che cambia la vita, che mostra una strada mai presa in considerazione, che apre la mente. Il mio è I miserabili di Victor Hugo, un mattone che ho faticato a digerire. Ho impiegato anni per arrivare all’ultima riga. Poche pagine alla volta, intervallate da lunghe soste sulla mensola dei “li leggerò più avanti”: ritagli di quotidiani, numeri interi di riviste, volumi vari, che accantono ciclicamente, nella bulimica foga di dare spazio a qualcosa di più interessante o attuale.
Peccato. Sarei stata una cronista di nera migliore, se lo avessi letto prima!
I protagonisti del romanzo di Victor Hugo (1862), I miserabili, sono gli ultimi tra gli ultimi, i dimenticati, i reietti. Relegati dalla società in malfamati quartieri ghetto, vivono alla giornata, tra stenti e sofferenze. Una povertà totale che fa da elemento caratterizzante, se non da causa scatenante, di atti di cruda malvagità: cedimenti al male degli stessi protagonisti dai quali, tuttavia, successivamente, passano slanci di assoluta positività, sentimenti forti come l’altruismo, il coraggio, l’amore, viatico di una vera e propria redenzione. Dio è sullo sfondo, ci vuole attenzione per vederlo, misericordioso, pronto a tendere la mano.
Quando ho finito di leggerlo, ho faticato a ritrovare tutte le certezze che mi hanno accompagnata nelle storie di cronaca nera e giudiziaria che ho raccontato per anni. Poche volte, al cospetto di un arrestato (che, spesso, finiva poi assolto) mi sono posta problemi di ordine etico, soprattutto con riferimento ai familiari che restavano fuori, nello snocciolarne le vicende imputate, affondando a piene mani e senza vergogna nei verbali di interrogatorio e negli atti di indagine, senza sorvolare sulle vicende familiari più personali, magari poco attinenti ai reati contestati, ma sufficientemente interessanti per dare un po’ di colore ai miei pezzi. Non sono mai andata oltre l’ovvio, pensando fosse coraggioso “non guardare in faccia a nessuno” e dando per scontato che il male stesse tutto da una parte e il bene tutto dall’altra. Oggi quegli articoli li scriverei con qualche risposta in meno e qualche interrogativo in più.
Se dovessi, ad esempio, raccontare della ribattezzata “baby gang delle stazioni”, recentemente individuata a Vigevano, proverei a costruire la cronaca andando oltre l’accertato dai Carabinieri. I fatti sono noti: un vero e proprio branco, composto da ragazzi, tutti minorenni, prendeva di mira coetanei impacciati e insicuri, spingendo fino alla soglia della violenza sessuale la, purtroppo diffusa, pratica del più ordinario bullismo.
È una vicenda che mi ha molto colpita. Per un aspetto, in particolare: la descrizione delle famiglie di provenienza dei ragazzi indagati. Quanti pregiudizi nella reiterata sottolineatura “i giovani appartengono a famiglie bene della città, figli di impiegati, professionisti e insegnanti”. Quasi a voler giustificare una sorpresa, perché, in termini sociologici, il male sarebbe dovuto essere altrove, nei nuovi miserabili, nei figli dei disoccupati, nei ragazzi delle periferie, nella moltitudine dei genitori a reddito zero. Quanti interrogativi, questa vicenda pone a noi genitori di figli per bene, ai quali compriamo il cellulare prima che imparino a leggere, che possono scegliere tra un numero infinto di giochi per la play station e di jeans strappati con il sedere di fuori?
Noi genitori per bene ci interessiamo al lavoro del padre migliore amico di nostro figlio sperando che sia un professionista e non un operaio, però non notiamo che il ragazzo colleziona sulla mensola della cameretta martelletti frangivetro dei treni. Non dico la cucchiarella di legno, metodo montessoriano di educazione a me più volte riservato da bambina, ma almeno il più civile “da dove l’hai preso”, che fine ha fatto? Di quei baby criminali siamo sicuri non siamo responsabili un po’ anche noi?
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