Un altro inchino davanti alla mafia .........
di CORRADO PAOLUCCI
Dopo il gravissimo gesto di riverenza alla 'ndrangheta avvenuto a Oppido Mamertina, un altro caso analogo si registra in Sicilia.
E' domenica 27 luglio e nel paese di Ballarò la processione della Madonna del Carmine si ferma davanti all'agenzia di pompe funebri della famiglia D'Ambrogio. Alessandro D'Ambrogio, capomafia di Porta Nuova, oggi rinchiuso nel carcere duro, è accusato di essere uno dei padrini che hanno riorganizzato Cosa nostra.
A riportare le notizia è Repubblica.it il 29 luglio.
La sosta incriminata
Un uomo con la casacca della confraternita di Maria Santissima del Monte Carmelo, urla: «Fermatevi».
E così la processione della Madonna del Carmine si ferma.
La vara tutta dorata di Maria immacolata compie il cosiddetto "inchino" davanti all’agenzia di pompe funebri della famiglia del capomafia Alessandro D’Ambrogio, uno dei nuovi capi carismatici di Cosa Nostra palermitana.
Lui non c’è, rinchiuso dall’altra parte dell’Italia,
nella sezione “41 bis” del carcere di Novara,
ma è come se fosse ancora qui, tra i vicoli di Ballarò.
Il dolore del frate rettore
«È stata una fermata anomala», ammette fra’ Vincenzo, rettore della chiesa del Carmine Maggiore.
«Anche quest’anno è accaduto», sussurra il giorno dopo la processione.
«Io ero avanti, su via Maqueda, stavo recitando il santo rosario.
A un certo punto mi sono ritrovato solo.
Ho capito, sono tornato indietro di corsa, e ho visto la statua della Madonna ferma.
«Avevo cercato di esprimere concetti chiari durante la preparazione del triduo della Madonna» continua il frate addolorato ai microfoni di RaiNews 24,
«richiamando tutti al senso di questa processione così importante.
Ed è accaduto ancora. Cosa bisogna fare?».
Da quando l’anziano sacerdote si è ammalato lui è solo nella frontiera di Ballarò,
che continua ad essere il regno dei D’Ambrogio,
nonostante i blitz disposti dalla procura antimafia.
«Da qualche tempo, la Curia si sta muovendo in modo deciso —
il tono della voce di fra’ Vincenzo diventa più sollevato —
sono stati chiesti gli elenchi dei componenti delle confraternite,
e poi il cardinale ha inviato suoi rappresentanti alle processioni ». ?
FERMARE LE PROCESSIONI?............
Le ragioni del Sì
da VINONUOVO.IT
E se lo prendessimo alla lettera?
Sull'idea dell'arcivescovo Nunnari di una moratoria delle processioni
là dove appaiono oggi irrecuperabili al valore della legalità..
Tre fatti, di cui si è avuto notizia tra il 6 e il 7 luglio hanno messo in scena, ancora una volta, il dramma della la commistione tra alcune realtà ecclesiali, criminalità organizzata, tradizioni popolari.
Scena prima, Palermo. Monica Maimone viene aggredita da due uomini che le hanno intimato di lasciare la città e il lavoro che sta facendo. Cioè organizzare il Festino di Santa Rosalia che si celebrerà il 14 luglio. L'imprenditrice, che è di Varese, ha fatto denuncia ed ora è sotto scorta.
Scena seconda, Larino (Campobasso). Il vescovo della diocesi, Gianfranco De Luca, fa sapere che alcuni detenuti per reati connessi alla 'ndrangheta, hanno detto di non voler più partecipare alla Messa, dopo le parole di Papa Francesco («coloro che nella loro vita hanno questa strada di male, i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati»).
Terza scena, Oppido Mamertina (Reggio Calabria). La processione della Madonna delle Grazie si ferma per trenta secondi davanti alla casa di Giuseppe Mazzagatti, anziano boss condannato all'ergastolo ma ora ai domiciliari per motivi di salute. La sosta equivale a un reverente inchino. I carabinieri abbandonano platealmente la processione, i preti e i fedeli no.
Tre scene e tre domande. Prima: è rimasto qualcosa di religioso, qualche cosa che abbia a che fare con la fede, nella festa di Santa Rosalia a Palermo, tra derive spettacolari e radicamenti mafiosi?
Seconda: lo "sciopero della Messa" dei detenuti di Larino, che senso ha? Alcuni, nella Chiesa, lo hanno interpretato come un segnale positivo: il papa avrebbe colpito i loro cuori, con le sue parole. Ma Roberto Saviano non è per niente d'accordo: secondo lui quella scelta è piuttosto «una dichiarazione di obbedienza alla 'ndrangheta, la riconferma del giuramento di fedeltà alla Santa... La scelta di andare a messa nonostante la scomunica avrebbe potuto far apparire gli affiliati sulla strada del tradimento, alla ricerca di quel nuovo percorso di pentimento che Francesco gli ha indicato» ("Repubblica", 7 luglio).
Terza domanda: a cosa sono "fedeli" i fedeli (e i sacerdoti) che hanno sostato compunti davanti alla casa del boss della 'ndrangheta? Pensavano di fare cosa gradita a quella Madonna delle Grazie che portavano in processione?
Le tre domande si riassumono in una: di quale fede sono espressione le tradizioni religiose popolari di questo tipo, così amorevolmente custodite dalle mafie, che infestano il nostro Paese e che sovvenzionano generosamente quelle stesse feste e processioni? È possibile un cammino di conversione per chi sta in carcere e per chi sta fuori e - dentro o fuori che sia - usa la religiosità popolare per avere consensi, prestigio, accreditamento tra la gente? Per far sì che la gente si inchini non al Signore, ma ai signori del male che controllano il territorio?
Ha detto Francesco Milito, vescovo di Oppido-Palmi, che la mancanza «di giusta reazione, come quella avuta dal Comandante della locale stazione dei Carabinieri e dei suoi due uomini in servizio, sia da parte dei partecipanti alla processione, sia da parte del clero e di membri vicini alle attività della Chiesa o di più prossimi al fatto... esprime come anche in settori della vita ecclesiale vige ancora un inaccettabile atteggiamento». Monsignor Nunzio Galantino, segretario della Cei e vescovo di Cassano allo Jonio, ha puntualizzato che «ai malavitosi si sono inchinati coloro che portavano la statua e non certo la Madonna» e che «non c'è nessun margine e nessuna possibilità di commistione tra fede e malavita». Salvatore Nunnari, presidente dei vescovi della Calabria, ha detto che bisognerebbe «avere il coraggio di fermare le processioni. Se fossi vescovo di quella città per un po' di anni non ne farei e credo che sarebbe cosa gradita alla Madonna».
E allora si pone la quarta domanda: ma davvero abbiamo bisogno di tutto questo, cioè delle processioni, delle feste, degli inchini? C'è una Chiesa che ogni giorno combatte contro le mafie: facendo crescere la coscienza civica, educando alla legalità, creando posti di lavoro per i giovani, tenendo i ragazzi lontani dalla strada, formando alla politica intesa come servizio e rispetto dei diritti. Una Chiesa i cui membri - preti e laici - sono stati uccisi, minacciati, costretti a vivere con la scorta. E c'è un'altra Chiesa che ancora porta la statua della Madonna a fare l'inchino davanti alla casa del boss mafioso, che accetta di essere usata dai criminali in cerca di consenso popolare, che finge di non sapere e non vedere.
Nel nome della prima Chiesa, non si potrebbe tagliare un po' di terreno sotto i piedi alla seconda, prendendo alla lettera monsignor Nunnari e decidendo una moratoria di quelle espressioni della tradizione popolare che appaiono oggi irrecuperabili al valore della vita, della legalità, del rispetto dei diritti e del bene comune? Una moratoria di qualche anno, tanto per vedere che effetto che fa, per verificare se magari anche grazie a questo la testimonianza della fede non diventa più limpida, più forte, più vera.
Anche da tutto questo facciamo un bel "liberi tutti", per riprendere l'espressione di Giorgio Bernardelli, per qualche anno e poi vedremo, se riprendere le processioni o magari inventare altre occasioni di preghiera, di pellegrinaggio, di celebrazione.
Le ragioni del No
di Luigi Santambrogio
da LA NUOVA BUSSOLA QUOTIDIANA
Basta processioni? Don Puglisi non l'avrebbe fatto
La lotta alla Mafia si fa restandogli di fronte educandone i figli al Vangelo
e non alla morte............
Capirci qualcosa nella storiaccia di Oppido Mamertina è impresa difficile, ma pretendere la verità sulla processione con la statua della Vergine delle Grazie, non è più cosa di questo mondo. A seconda di chi la racconta, la faccenda ha dieci, cento, mille versioni differenti. C’è stato o no l’inchino della statua davanti alla casa del boss? E se sì, chi è lo Schettino oppidano che ha impartito ai portantini lo sciagurato diversivo? Domanda che vale un intero processo e che rischia di diventare il tormentone dell'estate: i carabinieri s’erano subito sfilati, il sindaco non ha visto e il parroco, a tutt’oggi, non è ancora pervenuto. Nel polverone, poi, si sono fiondati i soliti giornalisti arruffapopoli, scrittori del ramo, opinion maker e criminologi assortiti. Compreso il principe dei tuttologi: lo scortato Saviano che dal paese di Gomorra elargisce a gettone le sua perle di saggezza mafiologica. Imparata per sentito dire e senza neppure passare per Scampia.
A far luce, forse, ci penserà la Dda di Reggio Calabria, che sull’inchino ha aperto ufficialmente un fascicolo: il reato ipotizzato è di associazione a delinquere di stampo mafioso. La magistratura, scrivono i giornali, avrebbe immagini ed informative dettagliate su quanto accaduto, prima, durante e dopo la processione e sono in corso anche le identificazioni di quanti, con ruoli sia pure diversi, erano al seguito della statua. Il Comune si costituirà parte civile e, in questo fervore di legalità mancano solo i Ris a prendere impronte e cercare tracce di Dna sulle banconote lasciate ai piedi della statua. Oppido Mamertino, insomma, come la nuova linea Maginot della guerra alle cosche e l’inchino mariano, semmai ci sia stato davvero, una sorta di Capaci ventidue anni dopo.
Pure la Chiesa ha improvvisamente alzato la guardia contro le commistioni sacrileghe, le feste religiose con la regia niente affatto occulta dei clan, Cresime e Battesimi come viatici per affiliazioni criminose, processioni piegate a sfilate in onore dei boss. Monsignor Salvatore Nunnari, presidente della Conferenza episcopale calabrese, ha dichiarato che i preti presenti avrebbero dovuto lasciare la processione. «Mi dispiace che i preti non abbiamo avuto il coraggio di andare via, di scappare da quella processione». Per l’arcivescovo di Cosenza, «quando i carabinieri se ne sono andati, anche i sacerdoti dovevano abbandonare la processione. Avrebbero dato un segnale e di questi segnali la Chiesa ha bisogno». Nunnari invita i suoi preti a non avere paura: «Bisogna avere il coraggio di fermare le processioni, dal momento che può capitare che «sotto la vara ci sia il mafioso di turno che poi fa il capo». Se fosse lui vescovo di quella città non avrebbe dubbi: «Per un po’ di anni non farei processioni e credo che sarebbe cosa gradita alla Madonna».
Ecco, dopo l’abolizione di padrini e madrine proposti dal vescovo di Reggio Calabria, ora scatta il divieto di processioni: niente più Santi e Madonne portate a spalla per le vie del paese, cancellate le feste per i Patroni e stop anche a quella del Corpus Domini. Assembramenti sediziosi, da sciogliere per sospette infiltrazioni mafiose e commissariare in attesa di giudizio. Tutto giusto, per carità: con un’associazione come la mafia che uccide nemici e innocenti, organizza stragi e vive di malaffare e violenze, la Chiesa non può certo tacere o fingere di non vedere. A costo di rinunciare a qualche manifestazione di pubblica fede se utilizzate a scopi criminali. Scelte radicali e dolorose, ma a volte necessarie. Non esistono solo gli atei devoti, a volte pure i mafiosi lo sono: adorano in modo idolatrico le processioni, il culto di certe Sante, l'ostentazione di simboli e immagini sacre, esibite e custodite perfino nei loro covi. Le mafie, come afferma il procuratore Nicola Gratteri, «si nutrono di consenso popolare, per esistere, hanno bisogno della gente: sono presenti lì dove c’è da gestire denaro e potere, dove ci sono grandi folle, come nelle manifestazioni sportive ma soprattutto nelle e vicino alle processioni religiose».
Tuttavia, quell’invito ai sacerdoti ad avere “il coraggio di scappare” suona un tantino strano, ma soprattutto orfano del suo scopo. Forse i giornali hanno travisato le parole del vescovo Nunnari, ma quel “coraggio della fuga”, al di là di ogni buona intenzione suona ambiguo, quasi un calembour, al limite della comicità. E tutto il dibattito (più mediatico che dottrinale) sulla scomunica ai mafiosi, pare riportare la questione indietro di secoli. Nel suo ormai celebre discorso, Papa Francesco non ha mai detto quello che i media o qualche improvvisato esegeta gli ha fatto dire. Non che la scomunica sia scomparsa dai codici o che la Chiesa abbia scelto la strada del buonismo, ma il Papa ha detto qualcosa di più: ha ricordato che la sola denuncia non basta, che occorrono un abbraccio e un incontro con l’uomo, che c’è bisogno di annunciare il Vangelo come risposta al male. In altre parole, servono più evangelizzazione e lavoro educativo.
«Resta prioritario invece che la Chiesa prosegua nella sua opera pastorale educativa e preventiva, in un comune sforzo di nuova evangelizzazione che comporta attività pastorale, annuncio biblico, dottrinale ed esercizio di opere di misericordia». A riaffermarlo è l’arcivescovo Vincenzo Bertolone, postulatore della causa di beatificazione (voluta da Benedetto XVI) di don Pino Puglisi, il sacerdote assassinato da Cosa Nostra a Palermo 21 anni fa. «Quello delle processioni infiltrate dalle cosche, delle confraternite piegate ai voleri dei boss, della religiosità popolare strumentalizzata dalle cosche», avverte il vescovo, «è fenomeno antico e ricorrente, ma non per questo inevitabile e men che meno accettabile. In ogni angolo del mondo. La tradizione popolare è un tesoro da custodire e da valorizzare come una manifestazione della fede; eventuali incrostazioni, se non rimosse, rischierebbero di minarne l'autenticità. È, per molti, versi, una questione di mentalità. Ma la mentalità si cambia non vietando o denunciando, ma soprattutto seguendo seri percorsi formativi come unico antidoto alla "non cultura" rappresentata dall'ignoranza, dalla tracotanza, dal disprezzo, ingredienti tipici della ricetta mafiosa».
Questo è anche il nocciolo dell’insegnamento di don Puglisi, oggi più che mai utile per capire il da farsi. Il sacerdote non sopportava la retorica dell’antimafia, lo sdegno limitato «ai cortei, alle denunce, alle proteste. Tutte queste iniziative hanno valore ma se ci si ferma a questo livello sono soltanto parole». «Don Pino finisce nel mirino della mafia», ricorda il suo postulatore, «perché prete, per il suo ministero sacerdotale, e quindi alfiere di legalità e giustizia, ma anche e soprattutto convinto testimone della Parola di Dio e della forza del Vangelo. Proprio per questo fu inviso ai mafiosi, portatori di un ateismo materiale diventato esso stesso religione con al centro il dio del potere, opposto al Dio dei credenti».
In passato la Chiesa assecondò o tacque sulle idolatriche dei mafiosi e molti i parroci che non videro contraddizione tra l’appartenenza religiosa dei fedeli e il loro essere a servizio dei clan. Strappare i Santi alla mafia, compreso Gesù Cristo che nella devozione distorta dei criminali è assimilabile a un qualsiasi bandito messo ai ceppi dagli sbirri, fermare il killer che prega e spara, convertire il mafioso che bacia il crocifisso e strangola, sbugiardare davanti al popolo il boss che dal carcere di massima sicurezza innalza altarini alla Madonna, legge e annota la Bibbia, non è cosa che si fa in un giorno. E neppure il miracolo può avvenire vietando o sconfessando, per decreto e senza discernimento, uomini e tradizioni. Una Chiesa complice e silenziosa faticherà a cambiare solo sulla spinta di un’altra che denuncia e scomunica. In mezzo c’è un immenso spazio a disposizione per un’opera più grande e più viva, per una comunità cristiana capace di giudicare e scegliere, ma soprattutto, come insiste Francesco, di abbracciare e ridare speranza agli uomini. Mafiosi compresi.............
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