Il mio vescovo gioca pulito in una terra di giochi sporchi..

di don Marco Pozza

«I poveri sanno odore, portano la stessa camicia per settimane,
certi giorni elemosinano anche un sorriso.
Io, invece, sono venuto da voi perchè con voi
ho un grosso debito da saldare:
in una stagione difficilissima della mia vita di prete,
mi avete aiutato a salvare la fede».
Loro, il popolo del carcere “Due Palazzi”,
gli rispondono con lo sguardo stupito,
gli occhi lucidi, la voce commossa:
uomini di assurde battaglie, di misteriosi ascolti.
Sono la prima parrocchia che don Claudio va a trovare:
un'intera domenica passata accanto a loro per dire
«sono venuto qui per chiamarti a nome di Gesù»,
proprio come i discepoli al cieco del Vangelo.
Don Claudio parla un linguaggio semplice,
colorato della strada e nostalgico del Cielo,
racconta la bellezza nascosta dentro la miseria più nera,
parla di Dio narrando storie di uomini perduti e ritrovati.
Loro, pecore sperdute, riconoscono la voce del pastore.
Lui ha l'umiltà di chiedere scusa, per quando,
come i discepoli, «abbiamo pensato che Gesù
non fosse interessato ad incontrare il cieco».
Ad incontrare loro: è la schiettezza di chi sa dove andare.
I poveri hanno nome e cognome,
«infastidiscono, puzzano di strada eppure
la storia di uno di loro è la storia di tutti noi».
Lui li sveste con le parole, loro lo riconoscono come di casa.
Ricordano tutto della loro storia,
soprattutto le ferite date, quelle ricevute.
Eppure, questa volta, hanno netta la percezione
di uno che li ama per come sono:
non li vuole aggiustare, li ama così, rotti.
Come papa Francesco, il “loro” papa.
Come Gesù, del resto.
A pregare con lui c'è una platea affollatissima,
quella della domenica: nessun vestito per l'occasione,
qui ogni domenica è così.
Assieme a loro, tutta la buona-gente che, discreta,
entra ogni giorno per dire loro «Coraggio, alzati!».
A tutti racconta la storia di Etty Hillesum,
morta per mano nazista:
«Non saranno certo circostanze esteriori
a togliermi la libertà di amare, sperare, sognare».
Parla di lei, ma loro intuiscono che parla a loro:
certe voci la strada le sintonizza come un direttore d'orchestra.
Poi amministra la Cresima e la prima comunione a Francesco,
da oltre vent'anni dentro le patrie galere.
Gli parla, parlando a tutti:
«Dio si affaccia tante volte nella vita delle persone.
Fate come il cieco: date un senso alla vostra libertà».
Quando l'abbraccia, non è circostanza:
è credere che Dio ti viene a stanare nei luoghi più impensati,
nelle situazioni più assurde, sul ciglio della disperazione.
Lui, don Claudio, sa di essere un vescovo “di papa Francesco”:
non lo dice, glielo si legge nei gesti.
Non lo nasconde: «Pregate per me, perchè
la scelta sbagliata di un vescovo può diventare un peso faticoso
per tantissima gente».
Ammette di aver paura di sbagliare, racconta le sue fatiche d'uomo,
non nasconde nulla della sua miseria.
Gioca pulito in una terra di giochi sporchi:
era l'unico modo per entrare in quei cuori.
Per poi lasciare un dono come traccia del suo passaggio.
E' la sua beatitudine preferita, quella insegnatagli da Lorenzo,
uno dei suoi poveracci:
«Beati i barboni, non hanno né illusioni né maschere:
sono lo specchio di tutti noi».
Finita la messa, se lo sono abbracciati 
quasi il tempo di un'altra messa: 
da queste parti un tocco d'umanità
è l'anticipo saporito della misericordia di Dio.

(da Il Mattino di Padova, 26 ottobre 2015)

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