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Ad Auschwitz-Birkenau, dove il mondo conobbe l’inferno
Nei lager nazisti dove un milione e mezzo di persone trovarono la morte, il Papa si recherà domani per rendere omaggio a San Massimiliano Kolbe e incontrare 12 superstiti all’Olocausto e 22 ‘Giusti tra le Nazioni’
SALVATORE CERNUZIO
Si entra a testa alta ad Auschwitz, sotto la tetra scritta Arbeit macht frei, pensando che in fondo ci si appresta a vivere un’esperienza culturalmente interessante che aggiunge un tassello alla propria conoscenza storica. Se ne esce, però, a testa bassa, con un groppo alla gola, facendo fatica a credere che quello che ora è un cumulo di sassi, polvere e costruzioni in mattoni sia stato l’abisso che inghiottì la vita di un milione e mezzo di persone.
La sensazione traspare sui volti contriti degli oltre 20mila giovani che in questi giorni di Gmg transitano nel lager nazista. Per esigenze di salvaguardia la loro visita al campo è limitata all’esterno degli edifici storici. Non è possibile, cioè, visitare gli enormi padiglioni in cui venivano accalcate anche 100 persone, 3-4 per letto, tutti con una sola stufa, nel freddo, nella fame e nel buio. Chiusi al pubblico anche i diversi blocchi, come il numero 21 che riporta la scritta Haftl- Krankenbau. Chirurgiche, il luogo in cui “l’angelo della morte”, il famigerato dott. Mengele, conduceva orribili esperimenti su donne incinte e bambini, soprattutto gemelli. Vietato l’accesso anche al Blocco 10 che ospitò Primo Levi e l’11 dove trovò la morte San Massimiliano Kolbe, “il frate francescano polacco che volontariamente morì per salvare la vita di un altro prigioniero”, come si legge su una gigantografia fuori dall’edificio.
Ci sono tuttavia targhe, foto, serigrafie, esposte lungo il percorso insieme a minuziose didascalie, a raccontare quell’orrore. E c’è il filo spinato che avvolge l’intero campo a ridare la dimensione di oppressione che vivevano quelle persone, illuse da false promesse di libertà. Camminando si scorgono piccoli dettagli, come una rosa ormai appassita poggiata sul pannello che ritrae i volti dei 19 prigionieri polacchi impiccati pubblicamente nella cosiddetta ‘Piazza dell’Appello’. Una zona ora ricoperta di verde, ma in passato rossa per il sangue versato dai prigionieri puniti con la fucilazione.
Una rosa rossa è incastrata pure tra le catene della “Porta della morte”, il cancello che affaccia sulle antiche rotaie di Birkenau. È lì che il pugno arriva dritto allo stomaco: se Auschwitz è stata ricostruita con le sembianze di un museo a cielo aperto, Birkenau,Auschwitz 2, è rimasta nuda e cruda com’era. Come quando, cioè, accoglieva oltre 100mila persone – non solo ebrei, ma anche polacchi, prigionieri sovietici e zingari – per condurli verso la fine. Che avveniva tramite la crudele invenzione che furono le camere a gas, dove in circa 30 minuti venivano ammazzate centinaia di persone ritenute inabili al lavoro agli arrivi dei convogli, avvelenate dalle inalazioni di Zyklon B. Era la cosiddetta “soluzione finale” che si consumò nel 1944-45.
Di tutto questo sono rimaste solo macerie: dei forni crematori c’è solo lo scheletro della struttura e le ceneri delle vittime sono conservate in un’urna o sotto lapidi in marmo omaggiate da pietre. Colpisce in particolare il Crematorium IV, l’unico forno fatto saltare in aria non dai nazisti che volevano nascondere le prove dei loro crimini, bensì dagli ebrei del Sonderkommando, una sezione speciale deputata a svuotare le camere dai corpi gassati. Il 7 ottobre 1944, in un impeto di coraggio i prigionieri organizzarono l’unica rivolta armata che Birkenau ricordi, dando fuoco alla struttura e facendola esplodere. Per questa ‘bravata’, 450 di loro furono uccisi.
Ogni singola pietra di questo campo che, se non fosse per il filo spinato sembrerebbe una vecchia fabbrica come tante sparse in Polonia, nasconde dunque la storia di una vita brutalmente spezzata. Tutte queste sono narrate nel Museo, tappa finale del lager, dove attualmente sulla facciata campeggia un’immagine del Papa sorridente. L’unico sorriso che si incontra negli 8 km del lager.
È lì che Bergoglio arriverà domattina alle 9.30 per commemorare le vittime. Nel Museo si soffermerà davanti alle lastre in marmo che recano i loro nomi, scritte nelle 23 lingue usate nel campo, e incontrerà 22 “Giusti tra le nazioni”, tutti i non-ebrei che misero a repentaglio la loro vita pur di salvare quella altrui. Tra questi ci sarà suor Janina Kierstan, superiora delle Suore Francescane della Famiglia, l’ordine che salvò oltre 500 piccoli ebrei grazie all’opera dell’allora provinciale suor Matylda Getter, definita per questo la “madre” dei bambini del ghetto di Varsavia.
In sottofondo il Rabbino capo della Polonia, Michael Schudrich, intonerà in ebraico il Salmo 130, conosciuto nella tradizione cattolica come il De Profundis. Lo stesso salmo sarà letto poco dopo in polacco da don Stanisław Ruszała, pastore della parrocchia di Markowa, provincia dell’attuale regione di Podkarpackie che all’epoca dell’occupazione tedesca contava 4.500 anime.
In quel villaggio abitava la famiglia Ulma: Józef e Wiktoria e i loro sette bambini, contando anche l’ultimo che la donna portava in grembo. Tutti quanti furono sterminati da nazisti con la ‘colpa’ di aver salvato degli ebrei. Nella loro casa gli Ulma, nonostante l’estrema povertà e i rischi, avevano infatti dato rifugio a 8 ebrei delle zone limitrofe. A denunciarli fu un tale Włodzimierz Leś, ufficiale della marina di Łańcut. All’alba del 24 marzo 1944, cinque gendarmi tedeschi e diversi poliziotti arrivarono di fronte alla casa degli Ulma, guidati dal tenente Eilert Dieken. Prima spararono agli ebrei e poi a Józef e Wiktoria che al momento dell’esecuzione stava per dare alla luce il suo bambino. Poco dopo Dieken decise di sterminare anche i figli della coppia. In pochi minuti, 17 persone persero la vita. Nel 1995 gli Ulma furono riconosciuti come “Giusti”, nel 2003 è stato avviato invece il processo per la causa di beatificazione nella diocesi di Przemyśl, tuttora in corso in Vaticano.
Una storia di sacrificio come quella di Massimiliano Kolbe, il francescano che scelse di consegnarsi alla morte al posto di un padre di famiglia. Nel giorno in cui ricorrono 70 anni dalla sua condanna, il Successore di Pietro pregherà nel bunker di Auschwitz dove il frate perì.
Sempre ad Auschwitz il Pontefice regalerà il suo abbraccio a 12 superstiti che lo attendono sul piazzale delle esecuzioni. Tra loro spicca il nome di Helena Dunicz Niwinska, signora che vanta 101 anni e che per questa Gmg ha messo a disposizione la sua abitazione per ospitare i pellegrini. Marchiata con il numero 64118, Helena, ex violinista, fu deportata nel ‘44 insieme alla madre che morì due mesi dopo. Nel campo fu membro dell’Orchestra, esperienza che racconta nel suo libro Una delle ragazze nella banda pubblicato nel 2013.
Accanto a lei ci saranno Alojzy Fros, arrestato come cospiratore come il prof. Wacław Dlugoborski di Varsavia che riuscì a fuggire durante un’evacuazione e che ora è curatore del Museo di Auschwitz-Birkenau. Fuggì anche Zbigniew Kaczkowski, arrestato nel ’43 sotto il falso nome di Kaczanowski e imprigionato nel Blocco 11; poi Stefan Lesiak, liberato a Buchenwald nel ’45, e Valentina Nikodem deportata ad Auschwitz con la madre perché il padre uccise un Gestapo a Lodz. Nel campo, Valentina lavorò al settore pacchi, aiutando numerose donne a dare alla luce i loro figli tanto da essere nominata “madrina” di numerosi bambini. E ancora Marian Majerowicz unico superstite della sua famiglia, liberato durante la “marcia della morte”, che oggi è presidente dell’associazione degli Ebrei veterani e vittime della Seconda Guerra mondiale a Varsavia.
Uno dei sopravvissuti donerà al Papa una lampada, simbolo di quella fiamma della memoria che mai deve spegnersi. Infine Francesco lascerà un messaggio sul Libro d’Onore: saranno queste le uniche parole di una visita condotta tutta nel silenzio più totale. Un silenzio che, però, parla a voce alta.
[Dal nostro inviato a Cracovia]
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